di Giuseppe Lupo *
Dicono che Enzo Bearzot conservasse l'abitudine, ricevuta dai tempi in cui frequentava il liceo, di leggere Plutarco, Strabone, Svetonio, Senofonte, Tacito e tanti altri storici greci e latini. Dicono che dalle pagine in cui si raccontavano le battaglie avesse tratto ispirazione per schierare la Nazionale italiana nei giorni gloriosi del Mondiale spagnolo nel 1982. Se è vera questa leggenda - che essendo tale, appunto, va accettata nella sua totalità, anche nel caso non fosse vera -, dobbiamo pensare alla celebre compagine che iniziava con Zoff e terminava con Graziani/Altobelli come a un'inedita compagnia di frombolieri, arcieri, fanti, cavalieri, manovratori di catapulte e altre macchine da guerra. C'erano tutti, ognuno con i compiti assegnati e non è difficile credere, visti i risultati ottenuti, che la fiducia, il rispetto, l'obbedienza concessa al loro supremo condottiero abbiano spinto all'impresa.
Così è stato e l'Italia che si svegliò all'alba del 12 luglio, dopo una notte in cui nessuno prese sonno, cominciò a camminare su una strada che neppure lontanamente immaginavamo di percorrere appena poche settimane prima, confortati dall'euforia del successo, voltando le spalle al peso degli anni di piombo in nome di quella disimpegnata leggerezza che accompagnò, nel bene e nel male, gli anni Ottanta. Era avvenuto qualcosa di inaspettato sul campo di Madrid, per chi visse i fatti in diretta e per chi li avrebbe ricordata di riflesso nei decenni a venire, e tuttavia ancora oggi i conti non tornano se si pensa al personaggio più emblematico, Paolo Rossi, figura chiave di quell'avventura, volto iconico del trionfo. Il problema non sta nei numeri, piuttosto nel paradosso della strategia studiata dal Vecio per fare di quel ragazzo dal piglio malinconico e l'aspetto dimesso, il meno appariscente degli undici, l'eroe di un'epopea omerica.
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* docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università Cattolica