«L’ho incontrato personalmente una volta sola e in circostanze drammatiche, mentre l’arcivescovo si stava prodigando per la liberazione di un ostaggio in mano alla guerriglia. Mio fratello Roberto, invece, era tra i più stretti collaboratori». A parlare del suo rapporto con monsignor Oscar Romero, di cui è stata annunciata la beatificazione fissata per il 23 maggio a San Salvador e di cui il 24 marzo ricorrevano i 35 anni dall’assassinio, è Benjamín Cuéllar Martínez.
Ospite dell’Università Cattolica alla fine del mese scorso per un seminario sulla tutela delle vittime di ieri e di oggi in El Salvador e per la discussione della tesi di dottorato di Annalisa Zamburlini, di cui è stato tutor internazionale, Cuéllar Martínez si è dedicato completamente a restituire giustizia alle vittime della violenza della dittatura e a lavorare a un processo di pacificazione di un Paese che, a più di vent’anni dalla conclusione della guerra civile, si trova ad affrontare le ferite non rimarginate del passato e un presente segnato da una violenza dilagante.
Nel 1992, alla vigilia degli Accordi di pace che misero fine a dodici anni di conflitto, Cuéllar Martínez fu chiamato a dirigere l’Istituto per i diritti umani dell’Universidad Centroamericana “José Simeón Cañas” (Idhuca). Questo organismo universitario era stato fondato nel 1985 dal gesuita Segundo Montes, con l’obiettivo di contribuire al pieno rispetto dei diritti umani, in particolar modo favorendo l’accesso della popolazione alle istituzioni statali deputate alla tutela dei diritti fondamentali.
Cuéllar Martínez (nella foto sotto) raccolse l’eredità di padre Montes, assassinato nel 1989 da un battaglione speciale dell’esercito assieme al rettore dell’Ateneo, Ignacio Ellacuría, ad altri quattro padri gesuiti e a due collaboratrici. Da allora, per ventitré anni, ha impegnato tutte le sue energie a favore del diritto alla verità, alla giustizia e alla riparazione materiale e morale delle migliaia di vittime del conflitto. Tra le iniziative più significative bisogna senz’altro ricordare il Tribunal Internacional para la aplicación de la justicia restaurativa en El Salvador, organismo privo di riconoscimento legale, istituito dall’Idhuca nel 1999 come tentativo di iniziare a rispondere all’esigenza di giustizia delle persone offese e dell’intera società salvadoregna.
Il riferimento alla “giustizia riparativa” allude a una modalità “non formale” di giustizia, che pone al centro le vittime e non fa necessariamente e unicamente coincidere la risposta all’offesa con la punizione dei colpevoli. «È l’unico spazio in El Salvador dove, in maniera permanente, le vittime trovano ascolto rispettoso, accoglienza e riconoscimento della loro dignità», spiega Cuéllar Martínez. «Non si tratta certamente della piena riparazione a cui hanno diritto, ma può essere l’inizio di ciò che è stato finora negato».
Un processo che potrebbe ricevere un impulso dalla prossima beatificazione di monsignor dell’arcivescovo di El Salvador. Oscar Arnulfo Romero, il 24 marzo 1980, alle ore 18.25, mentre stava celebrando la Santa Messa, appena terminata l'omelia, fu colpito al cuore da un colpo di arma da fuoco. Caricato su una vettura, morì poco dopo in ospedale. Venne così messa a tacere la voce che nella nazione centroamericana denunciava violenze, sequestri, omicidi, indicando responsabilità e complicità. Una voce scomoda per le oligarchie politiche ed economiche; una voce amica e fedele per i poveri e gli oppressi.
«Mio fratello Roberto – racconta Benjamín Cuéllar Martínez - era tra i più stretti collaboratori di Romero. Era a capo del piccolo gruppo di giovani avvocati che, a rischio della propria vita, registravano e indagavano le violenze quotidiane e redigevano settimanalmente un rapporto sulle violazioni dei diritti umani commesse dallo Stato e dai gruppi armati di qualunque parte politica, da cui Romero attingeva per denunciare, all’interno e all’esterno del Paese, la drammatica situazione di El Salvador».
Secondo il direttore dell’Istituto per i diritti umani «Romero fu un autentico profeta, coerente fino alle estreme conseguenze con quanto predicava. Nel suo lavoro pastorale non faceva differenze tra destra e sinistra: stava con le vittime. Difese i prigionieri politici del regime, il popolo massacrato, ma intervenne anche in soccorso degli ostaggi in mano alla guerriglia. Oggi, che è diventato difficile distinguere tra destra e sinistra in El Salvador e nel mondo, l’esempio di Romero è quanto mai attuale».
Ma Benjamín Cuéllar Martínez mette una condizione per una reale efficacia del riconoscimento del martirio di Romero. «La beatificazione di quest’uomo buono - spiega - potrebbe finalmente aiutare il mio Paese a cambiare solamente se saranno le vittime e non gli autori dei crimini - che si contendono la figura del martire e la piegano ai propri interessi - a raccoglierne l’eredità morale».
«Se saranno i politici ad appropriarsi della beatificazione di Romero non andremo meglio – prosegue Cuéllar Martínez – ma se si lavora con le vittime, e queste si appropriano di questo santo che ha dato il suo sangue per la difesa dei diritti umani è possibile che El Salvador inizi a cambiare. Il cambiamento si raggiunge dal basso e da dentro, e monsignor Romero deve essere un’ispirazione per questo processo. Se non sarà così, l’arcivescovo finirà nei nomi di tante vie o sulle magliette come Che Guevara. Ma lui si opporrebbe ai monumenti. Il miglior modo per rendergli omaggio è restituire dignità alle vittime».
Un motivo di speranza potrebbe venire da Papa Francesco, che ha fortemente voluto questa beatificazione. «La gente ha molta fiducia in lui, come l’aveva in Romero, poiché è la nuova “voce dei senza voce”».