Come si traccia il confine tra il dolo eventuale e la colpa cosciente? Tra la volontà di cagionare un evento dannoso e l’involontaria produzione di esso? Alla questione, gravida di conseguenze e da sempre al centro del dibattito giuridico, hanno cercato di dare risposta le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nell’ambito del noto caso ThyssenKrupp, in cui l’amministratore delegato della società era stato accusato di avere consapevolmente provocato la morte di sette operai della fabbrica a seguito dell’incendio verificatosi nella notte del 5 dicembre 2007. Un’incisiva e provocatoria immagine di Holmes, richiamata in un recente scritto sul tema di Massimo Donini e ripresa dal professor Gabrio Forti, ha dato avvio al primo giro di tavolo della giornata di studi promossa dal Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia Penale e la Politica criminale (Csgp) dopo la sentenza: «Persino un cane distingue tra l’essere colpito da una persona che gli inciampa sopra e l’essere preso a calci». Un dato dell’esperienza di come la volontà nelle aule giudiziarie diventa un problema difficilissimo, cui è spesso assai arduo fornire soluzioni univoche: come è emerso nel dibattito, la sentenza delle Sezioni Unite non fornisce una soluzione “definitiva” al problema, ma offre una fondamentale guida metodologica al giudice per affrontare la varietà dei casi concreti.
Nella sua introduzione, il presidente della Corte d'Appello di Milano, Giovanni Canzio, ha spiegato come, nonostante la presenza di un contesto storico, sociale e mediatico fortemente caratterizzato da pressioni securitarie, che spingerebbe l’interprete verso soluzioni poco rispettose dell’effettivo stato psicologico del soggetto, la sentenza si sia attestata su profili alti, riaffermando, prima di tutto, la necessità che il giudice, nel rispetto della praticabilità empirica e umana dei criteri di imputazione, sviluppi i propri “talenti” nell’accostarsi alla – spesso indecifrabile – complessità del comportamento umano.
A questo proposito, Luciano Eusebi, docente di Diritto penale all'Università Cattolica, ha ribadito la centralità della componente volitiva nell’accertamento del dolo e ha proposto una lettura della decisione alla stregua della quale le molteplici circostanze di fatto individuate e valorizzate dalla Corte al fine di determinare la sussistenza o meno dell'elemento soggettivo del dolo eventuale (i cosiddetti “indicatori del dolo”) dovrebbero essere intesi quali criteri per comprendere se il soggetto era davvero determinato ad agire pur nella consapevolezza di provocare l’evento dannoso.
In una prospettiva più strettamente processualistica, interessanti spunti alla riflessione sono giunti dall'intervento di Tommaso Rafaraci, docente di Diritto processuale penale all’Università degli Studi di Catania: l’ambiguità intrinseca dell’oggetto dell’accertamento, che consiste in un fatto psichico di per sé stesso controverso, impone un confronto anche con le problematiche inerenti le condizioni di formazione della volontà dell’individuo, come sottolineato anche dal professor Forti. Il compito che spetta all’interprete è allora quello di capire in che modo utilizzare gli indicatori del dolo. Un punto di partenza dovrebbe essere l’abbandono di un approccio atomistico: essi vanno dapprima singolarmente accertati in concreto e poi valutati nel loro insieme, l’uno alla luce dell’altro.
Tra le ragioni che fondano la valenza storica e teorica della sentenza, di non secondario momento è anche il modo in cui essa pone, di qui in avanti, in capo alla giurisprudenza di merito la responsabilità di un particolare impegno e di un maggiore rigore nella costruzione di una “grammatica normativa” della prova del dolo eventuale, come chiaramente evidenziato da Salvatore Dovere, consigliere presso la Corte di Cassazione, la cui lucida analisi non ha mancato di rilevare come talvolta siano i limiti stessi del processo penale – la sua “insipienza” – a costringere l’interprete sulla via delle semplificazioni probatorie.
Giancarlo De Vero, docente di Diritto penale all’Università degli Studi di Messina, ha posto invece l'attenzione, fra le molte problematiche affrontate, sulla necessità che il concetto di dolo sia formulato per mezzo di espressioni univoche, anche in termini di valore. Il dolo, ha affermato De Vero, deve essere inteso quale decisione contraria al bene giuridico e solo qualora l’agente ritenga non più necessaria nemmeno la ponderazione del proprio agire rispetto all’incolumità altrui, questa condizione psicologica si distingue nettamente dalla mera sconsideratezza che ricade nella colpa.
La ricchezza e la varietà degli spunti offerti dal dibattito non ha, peraltro, sacrificato i momenti di sintesi e di elaborazione – in un’ottica costruttiva – di alcuni utili spunti per la prassi. Il contributo di Francesco Viganò, docente di Diritto penale all’Università degli Studi di Milano, ne ha dato felice prova: dopo aver ripercorso il ragionamento della Corte, il penalista ha sottolineato come già la componente rappresentativa del dolo dovrebbe essere esclusa ogniqualvolta l’affidamento del soggetto nella mancata verificazione dell’evento, ancorché irragionevole, sia stato effettivo. Di qui l’ulteriore necessità di identificare sempre lo scopo che il soggetto intendeva perseguire, al fine di poter valutare se e in che misura l’evento possa essere stato considerato quale prezzo per il conseguimento di quello scopo. Sarà, inoltre, da ritenere insussistente il dolo – pur nella sua forma più debole – quando, alternativamente, i costi dell’azione siano manifestamente sproporzionati rispetto al fine perseguito dal soggetto o il verificarsi dell’evento ne rappresenti il radicale fallimento o ponga a rischio beni di rango fondamentale facenti capo allo stesso agente.
Dall’incontro è emerso chiaramente il grande compito – di natura etica, prima ancora che giuridica – che attende il giudice dopo questa storica sentenza: un accertamento del dolo davvero rispettoso del principio di colpevolezza deve farsi carico, come affermano le Sezioni Unite, di «spiegare l’accaduto, di spiegare l’iter decisionale [del soggetto], di intendere i motivi che vi hanno agito, di cogliere, insomma, perché ci si è determinati in una direzione».
MILANO
Rogo ThyssenKrupp, il ruolo della volontà
Tavola rotonda tra giuristi, dopo le motivazioni delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sul processo a carico dell’Ad del gruppo tedesco accusato di avere consapevolmente provocato la morte di sette operai a seguito dell’incendio del 5 dicembre 2007