Studenti che faticano a imparare ce ne sono sempre stati. Ma la sensazione è che oggi ce ne siano di più, anche solo a giudicare da come sono diventati familiari acronimi come Dsa (Disturbi specifici dell’apprendimento) e Bes (Bisogni educativi speciali). È solo un’impressione o la fatica di apprendere è in aumento?
«Sempre più le difficoltà di apprendimento vengono riportate a un disturbo specifico di natura cognitiva neurobiologica (dislessia, discalculia, ecc.), con stime molto variabili del fenomeno: il valore medio si colloca attorno al 3-5% della popolazione scolastica», spiega il professor Alessandro Antonietti, ordinario di Psicologia cognitiva applicata e direttore del master sulle Disfunzioni cognitive in età evolutiva. Ma l’aumento dei casi è dovuto a un altro fatto: «Questi disturbi – secondo lo psicologo - sono meglio definiti rispetto al passato ed, essendovi maggior conoscenze al riguardo, si è più attenti a individuare situazioni che possono rientrare in queste categorie».
A cambiare è soprattutto il modo di riconoscere il problema: «Oggi si sono stabiliti criteri condivisi per identificare i disturbi dell’apprendimento e vi è un certo accordo sulle procedure da seguire per diagnosticarli. Nell’ambito della ricerca si fa anche uso di sofisticate strumentazioni sperimentali per individuare i precisi meccanismi mentali e neurobiologici responsabili di tali disturbi. Nel contesto clinico tuttavia la valutazione del deficit avviene prevalentemente attraverso prove standardizzate, anche se è auspicabile una valutazione complessiva del bambino/ragazzo che aiuti a comprendere se vi siano altre problematiche che si associano al disturbo».
Il ruolo dello psicologo, in questa prospettiva, non è solo quello di intervenire sul disturbo ma anche di facilitare e rendere efficace l’apprendimento per tutti gli studenti, facendo leva sulle scoperte delle neuroscienze.
«Gli studi sulla plasticità cerebrale hanno cambiato l’immagine del cervello», afferma il professor Antonietti, che è anche direttore dello Spaee, il Servizio di Psicologia dell’apprendimento e dell’educazione in età evolutiva dell’ateneo, che offre formazione e consulenza agli insegnanti e percorsi diagnostici e riabilitativi a bambini e ragazzi con specifiche difficoltà cognitive. «Non consideriamo più il cervello come un organo programmato dai geni e dotato di un numero prefissato di neuroni con caratteristiche strutturali non passibili di modifiche. Ora è ampiamente condivisa l'idea che quanto un più un giovane è sollecitato con stimolazioni ricche e molteplici, tanto più questo potenziamento “arricchirà” anche il suo cervello, che sarà maggiormente pronto ad adattarsi al suo ambiente».
Ma i cervelli non sono plastici del tutto, sono anche rigidi. Perché per apprendere dall’esperienza, per modificare e modulare le risposte in relazione all’ambiente, bisogna che ci sia una struttura di partenza. «L’idea che informa i teorici della cosiddetta core knowledge è che alla base della conoscenza umana del mondo vi sarebbe un numero limitato di sistemi cognitivi per trattare il mondo degli oggetti fisici, quello degli oggetti psicologici e sociali, lo spazio le sue rappresentazioni geometriche, il mondo dei numeri».
«Dall’interazione tra strutture mentali e influsso dell’ambiente scaturiscono modalità diverse di apprendere - spiega ancora Antonietti -. La differenza può emergere tra individui (bambini diversi possono imparare le medesime cose attraverso strade differenti) o anche all’interno dello stesso individuo (il medesimo studente impara in un modo in una disciplina e in un altro modo in un altro ambito). Per chi (genitore, insegnante) deve guidare i percorsi di apprendimento di un giovane, si pone quindi il problema di gestire questa molteplicità di strategie possibili».
Secondo il direttore del master, poter individuare la strategia di apprendimento che è più adatta per uno studente o portare uno studente a capire come deve variarla secondo le caratteristiche della situazione non è compito semplice. Un aiuto può provenire dalla conoscenza dettagliata dei processi cognitivi che sono implicati in un compito. In questo modo si può identificare quale sia il meccanismo di base su cui è opportuno focalizzarsi.
«Questo approccio è particolarmente utile a fronte di difficoltà o dei disturbi di apprendimento: anziché disperdere gli sforzi su vari fronti, si può indirizzarli verso il processo o i processi che stanno alla base del problema», aggiunge Marisa Giorgetti, coordinatrice del master e responsabile del settore clinico dello Spaee.
Per questo, come evidenziano le ricerche condotte anche in Cattolica, servono modalità di intervento sempre più mirate, senza dimenticare che i processi neurocognitivi specifici operano all’interno di una mente il cui sviluppo deve essere sostenuto globalmente, per esempio, prendendosi cura anche delle dinamiche affettive, della motivazione ad imparare, delle relazioni sociali, che possono diventare un potente alleato per alimentare l’apprendimento.