di Giuseppe Lupo *
Narrare un mondo non implica constatarne la dismissione o manifestarne il rimpianto, piuttosto obbedisce al progetto che fa della memoria la religione necessaria al nostro tempo. Il fatto stesso che ci troviamo a vivere in un presente apparentemente senza vie d’uscita, obbliga a ripensare alle esperienze che ci hanno preceduto, se non altro perché in esse continuiamo a fondare i caratteri della nostra identità e a sperare di trovare soluzioni ai problemi da cui stentiamo a uscire. Non sapremmo più riconoscerci, come nazione, come popolo, se dimenticassimo che appena cinquant’anni fa eravamo un Paese in grado di compiere quel miracolo che non fu soltanto economico, ma un salto storico, culturale, antropologico.
Una storia collettiva
Il punto non è solo verificare come e dove sia finita l’Italia degli anni 50/60, ma cercare le eventuali tracce rimaste, mettere insieme i frammenti di una modernità che ci ha accomunati tutti, senza distinzione di ceto o livello d’istruzione, e in cui probabilmente, magari anche senza saperlo, ci siamo ritrovati uniti nel percorrere l’avventura del progresso, nel guardare ciascuno dalla stessa parte e con i medesimi obiettivi, come mai era capitato dai tempi che precedettero e seguirono il 1861. Chiamiamo in tanti modi il periodo del boom - esplosione tecnologica, società di massa, miracolo economico - ma non ci sono dubbi sugli effetti unificanti che ha provocato non solo nei caratteri e nei comportamenti, ma nella formazione di una lingua nazionale. Tullio De Mauro riteneva che la pubblicità avesse contribuito a unificare il Paese e lo affermava in un convegno organizzato a Milano dalla Olivetti, nel 1968. Domandarsi se il passaggio alla civiltà industriale sia stato il vero collante di un’Italia che invece per tradizione era abituata a mantenere viva la logica dei separatismo e delle particolarità è un esercizio privo di senso. Sarebbe come cadere nella trappola in cui finirono molti intellettuali che dissentirono nei confronti dei fenomeni di massa e si ritrovarono in un’anomala posizione di antimodernità.
Assai più necessario invece è compiere un viaggio nell’immaginario di quell’Italia industriale” muovendo da un bisogno non secondario: cercare cosa sia rimasto di quell’epoca che non fu soltanto fortunata e felice, ma un momento cardine della nostra Storia, una stagione in cui la fabbrica, con le sue liturgie e la sua sacralità, nutriva le speranze di un popolo destinato a subire, l’humilemque Italiam che solo in quel periodo è stata capace di accantonare per sempre l’abito contadino e vestire la tuta da operaio.
[continua a leggere su Il Sole 24 Ore]
* scrittore e docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, facoltà di Lettere e filosofia, campus di Brescia