È morto Vincent Lambert, l’uomo tetraplegico da oltre 10 anni, simbolo in Francia della lotta per il fine vita. Ne ha dato notizia la sua famiglia questa mattina. Dopo l’ultima decisione del tribunale, i medici gli avevano sospeso cure e alimentazione da mercoledì della scorsa settimana.
Quarantadue anni, vittima di un incidente stradale nel 2008 in seguito al quale è finito in stato vegetativo, è morto alle 8.24 nell’ospedale centrale di Reims, nel nord della Francia, dove era ricoverato da anni. Jean e Viviane, i suoi genitori, hanno condotto una strenua battaglia legale per impedire che al figlio fossero interrotte cure e alimentazione che lo tenevano in vita. Da lunedì si erano di fatto arresi, definendo ormai “inevitabile” la morte di Vincent. La maggior parte degli altri familiari, a partire dalla moglie Rachel, erano invece schierati per l’arresto delle terapie, così come i sanitari che lo avevano in cura e il suo medico curante.
«Qui – commenta sul'agenzial Sir il professor Adriano Pessina, docente di Bioetica alla facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica – è in gioco la questione dell’accoglienza e dei tempi lunghi dell’assistenza di un malato con disabilità gravissima, tema con profonda valenza sociale e morale. La vicenda Lambert è davvero drammatica perché ha dato origine ad un conflitto tra familiari, tra chi voleva prendersene cura e chi no, all’interno del quale è stata assunta questa decisione priva di ragioni cliniche”. Un fatto “gravissimo”, come «è grave l’indifferenza mediatica che lo circonda e il sottile giudizio, assolutamente inaccettabile, sul valore e il significato della vita delle persone, come lui, in stato di minima coscienza».
Pessina sottolinea che senza aspettare il pronunciamento delle Nazioni unite, «si è deciso di lasciarlo morire senza provocarne direttamente la morte: tecnicamente non è eutanasia attiva, ma si tratta di un atto di omissione moralmente non meno grave, tanto più che non riguarda un paziente in fine vita, con una patologia che lo sta conducendo a morte, bensì, e lo ribadisco, una persona in situazione di disabilità gravissima, in uno stato di minima coscienza nel quale si trovano migliaia di altre persone, anche nel nostro paese, che finora hanno trovato sostegno culturale, morale, sociale oltre che clinico».
Una vicenda che, secondo il bioeticista, «deve farci riflettere perché se non creiamo una forte barriera culturale, la questione verrà sempre demandata a delle leggi, e le leggi mettono in campo aspetti permissivi – il che non vuol dire obbligatori – che però alla fine vanno nella direzione in cui prevale chi, in qualche modo, può decidere per altri. E la domanda corretta non è chi debba decidere, ma in base a quali criteri si debba decidere».
Per Pessina, «principio etico universale è il dovere di garantire il diritto alla vita di ogni persona, valore basilare e condizione per l’esistenza di tutti gli altri diritti. Minare il diritto alla vita significa minare in qualche nodo minare la nostra democrazia. Su questo occorre insistere perché non è in gioco soltanto una visione religiosa dell’uomo, bensì la visione di quello che siamo noi, del nostro diritto fondamentale di essere accuditi». Infine un monito: «Dobbiamo avere il coraggio di sottolineare che angoscia e richiesta di morire non possono essere censurate, ma non devono essere assecondate. Siamo chiamati a farcene carico e ad offrire risposte».