di Maria Cavazzuti *
Gino Funaioli, di letteratura latina, era proprio uno di quelli che hanno la faccia, esattamente da professore universitario: intendo nel senso positivo, così come il Gattamelata ha quella del condottiero e Ugo Foscolo quella del poeta. Piuttosto piccolo, tarchiato ma dritto, brachicefalo, calvo sulla fronte ma coi capelli lunghi dietro, labbra serrate e mascella larga, senza durezza; pallido, occhi stanchi e vivacissimi. Dai suoi studi in un’università germanica, un qualcosa di germanico gli era forse rimasto nel tratto urbanissimo e insieme un po’ svagato, nel tono leggermente antiquato del vestire, ma restava mirabilmente toscano nella bella pronuncia priva di affettazioni, nella maniera cordiale priva di sciatteria. Era di Pomarance; ed anche, lo scoprimmo nell’annuario, accademico dei Sepolti di Volterra. Senz’altro il tipo classico del maestro: esigeva uno studio serio, un’attenzione e un silenzio assoluti durante le lezioni; era severo agli esami. Accettava la battuta, e la ricambiava, solo se elegante.
Leggeva meravigliosamente. “Vastae tum in his locis solitudines erant...”. Tutto lo spirito dei primi capitoli della prima deca risorgeva nella sua voce solenne e limpida. Leggeva i dittonghi facendo ben sentire una e prolungata, aspirava regolarmente le h, non gli sfuggiva una clausola ritmica; e quando leggeva versi, mai scandiva con quello scempio d’accenti e parole triste smozzicate che ci avevano imposto in ginnasio: non spostava l’accento tonico, non faceva grotteschi spezzatini cadenzati, solo si posava musicalmente sulle lunghe, faceva pause legate alle cesure. Magari in un anno faceva dieci capitoli o cento versi in tutto: ma noi imparavamo da lui come studiare il resto da soli. Con lui era un rapporto vero tra scolari e maestro. Non era altezzoso né bonaccione. Non suscitava né Schwärmereien né antipatie; era il maestro caro e temuto ma soprattutto ammirato e stimato, pronto a ridere allegro allo scherzo come a schifare gelidamente la buffonata.
Le sue lezioni erano dense, non si perdeva mai in chiacchiere, non improvvisava; ed erano sempre divertenti: con umorismo ci delineava le miserie e le ambizioni di Cicerone, senza retorica la tragedia di Lucrezio, la religiosa serenità di Virgilio. Li abbiamo capiti con lui: ce li faceva sentire come uomini e come artisti. Certe frasi, certi versi, noi li risentiamo con la sua bella voce pisana. Ma anche con un eccezionale accompagnamento.
Succedeva così: leggendo il classico, lui via via s’immedesimava sempre più. senza impennate, senza birignao, ma la sua calma voce si emozionava con una controllata maestà che prima di tutto ci rendeva chiaro il latino come fosse italiano; e poi ci portava lontano con sé, nel mondo perduto delle bianche toghe. “Aeneadum genitrix, hominum divomque voluptas...”.
A un tratto ci accorgevamo che la mano di lui, quella che non reggeva il libro, cercava e trovava la tasca superiore del panciotto e ne estraeva il mazzo della chiavi. Sempre leggendo, le faceva lentamente oscillare. E oscillavano, oscillavano sempre più, finché tintinnavano. Con ritmo crescente, ecco che (sempre con gli occhi sul libro, e dal libro a noi), le agitava alte e quelle suonavano agitate sempre più forte, in una maniera stranamente autonoma eppure subordinata alla sua assorta, solenne lettura.
La prima volta, fu uno sbalordimento generale.
Alle sue lezioni, guai, non dico a ridere, ma nemmeno a distrarsi in silenzio; sorridere e mormorare una parola al vicino era cosa addirittura inimmaginabile: la sola volta che successe, lo vedemmo infuriarsi e con due parole gettare il disgraziato fuori dall’aula. Quindi, restammo impietriti. A qualcuno veniva sì da ridere; però, mordendoci le labbra a sangue e pensando intensamente a pestilenze, terremoti, morte e funerali dei più prossimi consanguinei, riuscimmo tutti a dominarci in quei primi terribili cinque minuti.
Ma quando, raggiunto il massimo, lo scampanìo dolcemente decrebbe e alla fine, con movimento del tutto autonomo com’era cominciato, la mano libera ricollocò le chiavi in tasca, ci accorgemmo che eravamo già perfettamente avvezzi, che quello scampanellare era diventato un complemento di suggestione, e tale rimase: erano i campani del gregge di Titiro, era lo stormire dei boschi sul Palatino selvaggio, la tempesta sulle Alpi attraversate da Annibale, o il pianto di Didone... Normalissimo, ormai. Tanto normale che, più che per malizia, per vera dimenticanza non avvertivamo le matricole, le quali ricevevano il loro choc la prima volta, e poi, come noi, accettavano la colonna sonora di quelle bellissime lezioni.
Quell’incontro con il maestro Aristide Calderini
Era il ’45. Venni da Trieste a Milano in camion. Si partì da via Imbriani alla mattina e s’arrivò a Milano la mattina dopo, il solito gruppo di viaggiatori eterogenei dell’epoca: un’ebrea con un naso da vignetta, allegra e dinamica; un reduce dalla prigionia vestito leggero leggero e magro da far paura, al quale prestai un mio golf arancione durante la notte; un vecchio silenzioso che si fece metter giù dopo Verona e andava a caso alla ricerca del figlio disperso; un pittore che a Venezia caricò per soprammercato un quadro gigantesco; alla guida s’arrangiava un giovane giornalista che due volte sbagliò strada e comunque ci portò sani a destinazione.
Sporca e affamata, suonai all’uscio di Lillo Santucci la cui casa era miracolosamente intatta tra le molte rovine. E per ritrovare la pace e la mia prima giovinezza, la mattina dopo volli correre anche alla mia Università.
Facevano esami tra i calcinacci e l’andirivieni degli operai. E vedo in fondo a un chiostro spuntare una sagoma inconfondibile, Aristide Calderini, il solo rimasto dei professori d’allora. Secco, grigio e vispo, sempre in corsa, con la testa più avanti del resto del corpo di quasi mezzo metro, il Calderini volante di quindici anni prima. Lo rincorsi, proprio come allora lo rincorrevamo prima che sparisse come portato dal vento.
«Professore! Professor Calderini! come sta? vengo da Trieste!»
Si fermò di scatto, mi afferrò la mano, mi riconobbe, gridò: «Mi dica, mi dica dell’Istria!»
Io stavo per rispondere, ma lui incalzò: «L’Arena di Pola è salva? Il Museo è salvo?»
Mi cascarono le braccia. Ma vidi i chiari occhi dell’archeologo fissi nei miei con tanta attesa, che lì per lì ritrovai il Calderini di sempre, quello che – dopo rassicurato sull’Arena e sul Museo - con altrettanta ansia mi avrebbe domandato dei vivi di Pola, di Capodistria, di Trieste. Perché per lui non era che le pietre istriane fossero più importanti degli istriani del 1945: era tutto importante sullo stesso piano – e sullo stesso piano c’era da piangere o da consolarsi, da tremare e da agire. Quando, nel pomeriggio, trovai una compagna di Pola e le raccontai: “Sai? Calderini mi ha chiesto se era salva l’Arena”, anche lei dopo un attimo di sconcerto si mise a ridere senza amarezza e senza sarcasmo.
Era lui. Il nostro Calderini che ci tenne per un anno su quella barba che è il Monumentum Ancyranum, eppure ce lo fece mandar giù convincendoci che era indispensabile conoscerlo. Perché lui faceva lezione, dovrei dire, con erudito brio, con erudizione scanzonata, ecco: pignolo, attento ai particolari, ma soprattutto alle debolezze e alle contraddizioni dei personaggi, che ci allontanava e avvicinava come voltandoci e rivoltandoci un cannocchiale innanzi agli occhi. Non gli individui, era la civiltà che contava; quella che aveva costruito i grandi monumenti, i templi, le tombe; il popolo, gli architetti: poco o nulla importavano i grandi tiranni e i grandi generali, dei quali ci presentava la vita a scorci e lumeggiature ironiche.
Soprattutto però quando eravamo di fronte agli esami, nel nostro foro interiore mettevamo in dubbio la fondamentalità dell’Antico. Era più facile superare un esame dimenticando qualche ministro della storia italiana dell’Ottocento, che non ignorando qualche divinità etrusca o qualche epigrafe imperiale. Era giusto questo?
Però è un fatto: dei nostri maestri, il più delle volte noi ricordiamo proprio, meglio degli altri, i Maestri dell’Antico. Anche se siamo convinti che d’antichità ce n’è stata ammannita un po’ troppa, non possiamo disconoscere l’utilità d’aver bazzicato con quei maestri, il mondo remoto. Forse, più che d’utilità o di necessità, sarebbe il caso di parlare di vero e proprio divertimento. C’è poco da dire. Quintino Sella non è divertente, mentre Pericle lo è. Probabilmente perché gli antichi concretavano in arte le loro idee, vere o false che fossero, e Platone scriveva assai meglio di Benedetto Croce. Non saprei, non è mai il caso di costruire aforismi, e d’altra parte la mia generazione, anche se non fu esplicitamente contestatrice e dissacrante, neppure accettò l’idea dell’Antico = Sublime, Inarrivabile.
Capivamo sì questo: che esso poteva affratellare Zielinsky e Calderini, Carcopino e Wilamowitz, quelli che le arene e i fori li avevano in casa e quelli che per vederli dovevano fare migliaia di chilometri. L’Antico diventa proprietà e patria di chi lo studia, senza monopolio italiano o greco o provenzale; forse lo sentivamo questo, polemicamente, perché erano i tempi dei colli fatali. Qualcosa che affratella, insomma, a dispetto di tutto il sangue che quei famosi antichi hanno sparso come oppressori. Oramai l’oceano dei secoli ha purificato le rovine, così come ne ha grattato via gli stucchi policromi e le dorature. Son diventate testimonianza di civiltà; e non solo di greci e di romani ed egiziani, ma mettiamoci dentro babilonesi e assiri e l’isola di Pasqua e i menhirs e le piramidi azteche e maya...e così ecco l’altro maestro, Guido Valeriano Callegari.
Gli idoleti di Callegari, un eroe omerico
Rivedo lo sparuto gruppetto che frequentava Antichità americane: con lui scoprimmo l’altro Antico. Con la sua inguaribile pronuncia veronese (mai una doppia), la sua barbettina cangiante oro-argento-rame vestito sempre poveramente, che simpatico ometto! Come un eroe omerico, lo ricordo sempre impugnante un’asta lunghissima, quella con cui indicava sullo schermo le proiezioni. Aveva tradotto molte opere del Flammarion e candidamente ammirava l’astronomo a cui la ricerca scientifica non aveva tolto la passione per l’ignoto, per le case infestate dagli spiriti, e che è stato il padre della fantascienza.
Callegari ci trattava da amici, interpellava in tedesco il nostro compagno bolzanese, mi faceva esercitare nello spagnolo che avevo incominciato a studiare alla meglio su un’esile grammatica Sonzogno; quando nelle proiezioni appariva ai piedi di una piramide messicana un omino in casco e con la bisaccia a tracolla, dichiarava con imbarazzo: «Ben non badateci, quello lì, modestamente, sarei io».
Lui era stato laggiù, tra serpenti e indios, per le polverose vie fiancheggiate dalle agavi giganti, dove ancora suonava l’eco degli zoccoli dei cavalieri di Pancho Villa e di Zapata. Quell’Antico lì, si conciliava addirittura con i film di avventure.
«Nei musei di X, ci sono queste statuine, questi idoleti, che modestamente ho donato io...» ma quell’avverbio che aveva sempre in bocca non suonava ipocrita né stupido: lui era quasi incredulo, inguaribilmente meravigliato d’essere conosciuto assai più in là della sua Verona, membro di molte accademie illustri (ma la sua preferita era sempre quella degli Agiati di Rovereto), e giurerei che quando ve l’avevano invitato e accolto si era presentato in giacchetta marrone, coi capelli sale e pepe leggermente scomposti come se allora si fosse tolto di capo il vetusto elmetto da esploratore, una spalla un po’ alzata come se allora allora se la fosse liberata dal peso della bisaccia carica di idoleti.
Le sue lezioni così confidenziali, però, ci apparivano un mondo assolutamente nuovo, perché il Foro Romano, Virgilio, Annibale, almeno all’ingrosso li conoscevamo da prima, mentre la civiltà sopravvissuta ai massacri di Cortèz ci trovava devotamente analfabeti. E ambiziosamente, trionfanti, mettevamo adesso Quetzalcoatl accanto a Zeus.
Ecco, degli altri professori, più o meno, siamo diventati uguali e colleghi; ma dei maestri dell’Antico, no. Io almeno, sono rimasta seduta ai loro piedi, come nelle scolture medioevali i discepoli dei giureconsulti o i fedeli degli apostoli.
Vastae tum his locis solitudines erant...
* Fascicolo 2 – Fondo Maria Cavazzuti – Articoli dalla “ Rivista del Medico ”
Il fondo è depositato nella Biblioteca Statale Isontina di Gorizia. Per gentile concessione di Piero Simoneschi, cugino di Maria e curatore del fondo