di Zygmunt Bauman
Come spiega Ulrich Beck “globalizzazione” è il nome dato a una coniugale convivenza in cui non c’è altra strada, a dispetto delle polemiche e delle collere passeggere ben note alla maggior parte delle coppie, che negoziare un accettabile modus vivendi, visto che né la separazione né, a maggior ragione, il divorzio, sono opzioni realistiche o auspicabili. “Globalizzazione” è il nome di un rapporto di odio-amore in cui si mescolano attrazione e repulsione; amore che aspira alla vicinanza e ostilità che spinge alla separazione.
Ecco perché le parole di papa Francesco sull’aprire le porte e andare incontro a tutti, pronunciate ad Assisi, e più ancora le sue parole sul comunicare non per far proseliti ma per capirsi, mi hanno così toccato; soprattutto perché pronunciate conversando con un agnostico dichiarato e direttore di un autorevole giornale anticlericale, che stampa regolarmente nelle sue colonne punti di vista male deglutiti dai cardinali.
Mi hanno commosso perché succede molto di rado, per non dire mai, nei monologhi a puntate spacciati per “dialoghi”, che si accetti in teoria, e ancor meno in pratica, che un dialogo degno del nome (una delle arti umane più difficili, benché la più necessaria al mondo hic et nunc) richiede la disponibilità a dialogare con gli avversari; a dialogare non solo con chi è d’accordo con noi e dello stesso avviso su ciò che ci sta a cuore, ma con chi ha idee che ci ripugnano.
Non è a queste forme molto comuni di finto dialogo che Francesco guarda, né nelle conversazioni a cui partecipa di persona né nella teoria del dialogo che, tenacemente, promuove da anni. In un articolo pubblicato in origine nel 1990, riproposto nel 2005 solo con modifiche minori, egli considerava il finto dialogo un segno di corruzione, la corruzione essendo, diversamente dal peccato (che si può perdonare), imperdonabile; la corruzione, lungi dall’andar perdonata, “andrebbe curata”.
Il marchio dell’individuo corrotto, secondo Jorge Mario Bergoglio, sta nel “prender male qualunque critica. [Un individuo così] svaluta chi lo giudica negativamente, e vorrebbe disfarsi di qualsiasi autorità morale atta a disapprovare qualche aspetto della sua condotta; giudica gli altri e disdegna chi è di parere diverso. Il loro [dei corrotti] modo di perseguitare è imporre un sistema di terrore a chiunque li ostacola; si vendicano rimuovendo [gli oppositori] dalla vita sociale”. “Il corrotto non riconosce la fratellanza né l’amicizia, solo la collaborazione. L’amore verso i nemici per lui conta nulla, al pari della distinzione di amico e nemico su cui si basava il diritto antico. Piuttosto, egli si muove nell’ottica dell’opposizione collaboratore-nemico. Così un corrotto con un incarico pubblico finisce sempre per coinvolgere altri nella propria corruzione. Li abbasserà al suo livello e li farà complici della scelta”. Inoltre “la persona corrotta non vede la sua corruzione. È come con l’alito cattivo: chi ne soffre non se ne accorge. Ma gli altri sì, e dovrebbero avvisare”. “Nel nocciolo di un giudizio formulato da un corrotto c’è una menzogna”: i corrotti si considerano “misura della giustizia”, e, peggio, proiettano sugli altri la loro immoralità”.
Tirando le somme, è possibile indicare un’emozione tipica del corrotto e del suo comportamento: l’odio, l’opposto dell’amore. Quell’amore che Henryk Elzenberg, un importante filosofo etico polacco, ha definito come “la gioia dell’esistenza di qualcun altro”. In particolare, il corrotto odia chi non collabora, chi si sente in diritto di pensare diversamente, chi fa resistenza. E come ha osservato Barbara Skarga, chi odia vede “anche in ciò che per gli altri è prezioso e importante” nient’altro che “doppiezza, degenerazione e frode, questa sembrando a lui la naturale condizione dell’uomo”.
“Io odio”, ci ricorda Barbara Skarga (pensando al polacco “nienawidze” e alle considerazioni del Bruckner) è, alla lettera, “non voglio vedere”. Non voglio vedere perché non voglio sapere. Chiudo gli occhi, mi turo le orecchie... mi affretto a premere “cancella” quando sul monitor mi imbatto in un’idea in disaccordo con le mie; il che, tra l’altro, succede di rado perché frequento i “nostri” portali, non essendo di finestre, ma di specchi, che vado in cerca sulla rete. E delle immagini in quegli specchi, di cui io stesso finisco con l’essere un’immagine. Hic, davanti al portatile, all’i-Pad o allo schermo dell’i-Phone; e nunc, nelle circa sette ore che l’uomo medio di oggi passa a guardarli. Questo hic et nunc che abbiamo avuto in dono dall’intelligenza artificiale, è una “comfort zone”; uno spazio al riparo dalle controversie, dalla stancante necessità di portare prove e argomenti a sostegno di ciò che diciamo, e dal pericolo di esser smentiti in uno scambio dialettico. Vi siamo attirati quando cerchiamo un rifugio dal chiasso e dai contrasti di una realtà piena di miscredenti, stranieri e “altri” che, semplicemente, non collaborano. (…)
Hic et nunc, in un mondo sempre più affollato e congestionato in cui chiese cattoliche, luterane e ortodosse, moschee, sinagoghe e luoghi di culto metodisti, battisti e dei Testimoni di Jehova, si contendono lo spazio disponibile a volte nella medesima strada (o, invece che nello stesso isolato o quartiere, nella rete, lo spazio oggi più visitato) ignorarsi a vicenda è sempre meno possibile. Di conseguenza, le possibilità di conflitto crescono incontrollabilmente. Con loro, crescono l’urgenza del comunicare e il desiderio di capirsi.
Come Jorge Bergoglio prima di lui, papa Francesco non solo predica la necessità del dialogo, ma la pratica. Di un dialogo vero, tra persone con punti di vista esplicitamente diversi, che comunicano per comprendersi. Non di un dialogo all’insegna dell’elogio reciproco, pensato dall’inizio per concludersi con una standing ovation; né un “dialogo” (solo in apparenza di tipo opposto) che sia in realtà una mera giustapposizione di monologhi. “In apparenza” perché queste forme di finto dialogo, o di dialogo mancato, hanno in comune l’includere una polizza assicurativa rispetto all’incontro autentico: con le altre opinioni, le altre posizioni e le altre gerarchie di valori e priorità (una polizza oggi assai diffusa anche nel mondo degli affari e della politica, e sempre più frequente in quello delle interazioni personali tramite la rete). (…)
Di sicuro l’arte che papa Francesco predica, e pratica lui stesso ogni giorno, è difficile da imparare e, più ancora, da attuare quotidianamente. La sua meno rischiosa alternativa è molto più allettante. Dopo tutto, in un dialogo degno del nome si deve mettere in conto anche l’insuccesso; la possibilità che il nostro punto di vista, ciò in cui crediamo, risulti errato, o che il nostro interlocutore risulti più nel giusto di noi...
Simili timori tendono ad aggravarsi e moltiplicarsi, perché meno ci confrontiamo con persone e punti di vista diversi dai nostri, più si indebolisce la nostra capacità di provare i meriti della nostra posizione (che è tutt’altro, naturalmente, dal cercare di aver la meglio alzando la voce, o dal turarsi le orecchie per non sentire le ragioni di chi consideriamo nient’altro che un nemico) e aumentano i nostri motivi di temere il confronto. Anche se l’isolamento stretto dalla diversità non dà più valore alle nostre opinioni, aumenta la nostra fiducia (ancorché ingiustificata) in ciò in cui crediamo, di modo che l’argomento della forza attrae più della forza degli argomenti.
Ma non lasciamoci indurre in tentazione! Sottrarci al dialogo, voltare le spalle al dovere di confrontarci con la varietà delle umane ricette per una vita decente, ci darà forse la pace mentale (benché, senza dubbio, solo per un po’) ma non risolverà nessuno dei problemi che minacciano il pianeta di estinzione e avvelenano la vita dei suoi abitanti. Con i suoi rischi e imprevisti, l’accettazione del dialogo può aumentare solo le difficoltà della vita privata, mentre il suo contrario mette in pericolo la coesistenza. Per il futuro dell’umanità in un mondo irreversibilmente multiculturale e multicentrico, l’accettazione del dialogo è una questione di vita o di morte.
Questo testo è stato pronunciato dal sociologo Zygmunt Bauman in occasione del convegno Dieci parole. Perché la nostra epoca ha bisogno di Dio Cent’anni di “Vita e Pensiero” 1914-2014, tenutosi in Università Cattolica dal 22 al 24 ottobre 2014. La relazione integrale è stata pubblicata nel numero 6/2014 della rivista