Con un dibattito intenso e profondo, il 27 aprile, in aula Gemelli, si è chiuso il Ciclo Seminariale “Giustizia e Letteratura”, organizzato dal Centro studi “Federico Stella” (Csgp) nell’anno accademico 2009-10 e accreditato dalle facoltà di Giurisprudenza e di Scienze linguistiche e Letterature straniere dell’Università Cattolica: sei incontri che hanno gettato un ponte ad ampia campata tra discipline e sensibilità diverse, accomunate dalla fondamentale domanda sul senso della giustizia.
L’ultimo di questi incontri, dedicato a due tra le opere più importanti di Fedor Dostoevskij, Delitto e Castigo e Memorie dal sottosuolo, ha avuto come relatore Adriano Dell’Asta, docente di Lingua e letteratura russa all’Università Cattolica di Milano, la cui conoscenza delle opere dello scrittore russo e la cui formazione e sensibilità filosofiche hanno reso partecipe il folto pubblico presente della profondità di pensiero espressa dai due capolavori. Opere, come ha ricordato nella sua introduzione Gabrio Forti, direttore del Csgp e docente di Diritto penale all’Università Cattolica di Milano, dove centrale è il tema della espiazione, come accettazione volontaria e interiore della sofferenza, come esigenza morale, sentita dallo stesso colpevole (e non impostagli dall'esterno); tema di cui Dostoevskij dà una testimonianza tanto più sconvolgente e coinvolgente in quanto maturata attraverso una vita intensamente e profondamente sofferta.
È la trasgressione il punto di partenza in entrambi i testi: in Memorie dal sottosuolo si traduce nell’insofferenza alle leggi naturali e scientifiche, e in una disillusa sfiducia nella capacità della conoscenza di soddisfare il desiderio di umanità; in Delitto e castigo ad essere violate sono le leggi umane e quelle morali. Ogni volta si ripropongono quelle contraddizioni classiche, coniugabili in una serie infinita di dicotomie, nell’antitesi esistenziale tra idea e azione che segna i personaggi delle due opere.
Il relatore ha preso avvio da qui, dall’apparente opzione meramente irrazionalista di Dostoevskij (che sembra cristallizzarsi in quella sua affermazione: “se effettivamente risultasse che la verità è fuori da Cristo, io preferirei restare con Cristo anziché con la verità”), per chiarirla, problematizzarla e soprattutto per superarla, recuperando i passaggi chiave dei due romanzi, ma anche cercando altrove, nei dialoghi di altre opere capitali come I fratelli Karamazov, fino agli scritti più intimi dell’autore, nei quali si rivelano i suoi dissidi interiori e le sue più alte intuizioni gnoseologiche.
Allora, convocati da Dostoevskij a sedere sul banco degli imputati non sono più la ragione o la conoscenza, l’amore o la legge, bensì le idee di tutto questo e l’astrazione estrema del reale che l’attaccamento a queste idee porta con sé: l’idea diviene prigione dell’uomo, costrizione meccanicistica ai limiti della fisicità, sino a divenire malattia del mondo intero, quasi Dostoevskij intravedesse già all’orizzonte l’incombere delle nubi oscure della dialettica spersonalizzante e formalistica dei totalitarismi, e dell’orrore cui avrebbe condotto.
Non è nella categorica opzione tra razionalismo ed empirismo che si coglie l’esito del percorso di formazione seguito dai personaggi dei due romanzi, ma nella sua sintesi, affatto intesa in senso hegeliano bensì come rinvenimento di una “via regale” – per usare la terminologia di Solov'ev – indipendente e comprensiva assieme: è quella di Cristo, di un Cristo inteso non come irragionevolezza, ma al contrario come ragionevolezza suprema, come giustizia che non nega la libertà e che è consapevole della impossibilità di trovare attuazione per mezzo degli strumenti umani, sempre soccombenti di fronte all’irrimediabilità del male; di un Cristo che è verbo fattosi carne.
In ciò trovano significato anche la pena e il castigo, quale momento catartico di riconciliazione con il male, di accettazione della sua quasi necessaria irrimediabilità tanto “reale” quanto simbolica, che passa attraverso un percorso silenzioso di estrema sofferenza. In essa, ad esempio in quella del Raskòl’nikov confinato in Siberia, si riproduce ogni volta il passaggio di Cristo dalla vita incarnata alla morte in croce, fino alla resurrezione che segna un nuovo inizio, una nuova vita, una rinascita. Queste le conclusioni del professor Dell’Asta al termine di un cammino ricostruttivo, difficile ed avvincente, sulla idea di giustizia nelle opere del grande scrittore russo, cui ha dato il primo spunto l’introduzione del professor Gabrio Forti e che ha tratto uno stimolo al confronto con la prospettiva del giurista dagli interventi e dalle osservazioni di Pierpaolo Astorina sulla sfida di Dostoevskij all’illuminismo e di Alessandro Provera sul significato del delitto e sulla funzione della pena rinvenibili nei due romanzi.
Accolto in questa sua prima edizione da una risposta larga e appassionata da parte degli studenti e di non pochi docenti e studiosi intervenuti, il Ciclo Seminariale “Giustizia e Letteratura” verrà riproposto anche nel prossimo anno accademico, con varie novità di impostazione e la partecipazioni di altri relatori: vasti e affascinanti sono i territori della letteratura che attendono di essere esplorati, molti ancora i raggi di luce che le opere di grandi scrittori possono gettare sugli oscuri meandri della riflessione giuridica.