di Marina Bertolini*
Il viaggio inaspettato è quello che più ci sorprende e meraviglia a ogni passo. Così è stato per me il Work Charity Program vissuto in Etiopia, un Paese che fra tutti quelli africani si distingue per la sua antica civiltà di cui si ha percezione in ogni momento.
A differenza di altri che partono per il desiderio di aiutare il prossimo, le mie motivazioni, al momento di iscrivermi al bando, erano più dettate dal desiderio di conoscere un'altra cultura e vedere un Paese da una prospettiva diversa: non quella del turista, bensì quella di un membro della comunità. Ma, come spesso succede, le aspettative raramente vengono soddisfatte e, talvolta, vengono superate.
Nel mio caso, la gioia che ho provato nel passare del tempo con i tanti bambini della scuola gestita dalla missione mi ha lasciato un ricordo meraviglioso che mai avrei potuto immaginare prima di vivere questa situazione. Credo che molti, alla prima esperienza di volontariato si sentano felici, e orgogliosi e, forse, anche un po’ bravi per il fatto di poter svolgere un’attività utile e di andare da un mondo che ha di più verso uno che ha di meno, sia pure materialmente.
Ma il percorso, in questo tipo di esperienze, non è mai unidirezionale. E anche andando in mezzo alla povertà si può tornare arricchiti. Perché se è vero che in Etiopia non sono presenti gli standard di vita a cui tutti noi siamo abituati, è proprio quello che non conosciamo che ci aiuta a metterci in discussione. Pur mancando di molto, non ho mai visto qualcuno lamentarsi.
Avrò sempre il ricordo dei giochi all’aperto, delle lezioni di amarico fatte dai bambini, delle canzoni e dei doni più banali ma fatti col cuore. Un’esperienza così non si può raccontare. Non perché sia qualcosa di strano o di difficile in sé ma perché chiede di uscire dal guscio in cui viviamo per poterci vedere dall’esterno e capire quello che abbiamo ma soprattutto quello che ci manca.
*22 anni, Milano, Economia e Gestione dei Beni Culturali e dello Spettacolo, 1 anno specialistica