«La Croce dice il volto nuovo del Dio rivelato da Gesù, e la risurrezione dice che Dio in quel volto si è riconosciuto pienamente». Sono parole di Bruno Maggioni, biblista e per anni docente di Teologia dell’Università Cattolica, tratte dal libro Il terreno della speranza. Note di cristianesimo per un tempo di crisi. Secondo l’autore in un tempo di crisi radicale come quello che stiamo vivendo, il cristiano non può sottrarsi al compito di tenere viva la speranza, essenziale alla qualità umana stessa dell’esistenza. «Ma la speranza non è facile da vivere, per nessuno, neppure per un cristiano. Essa infatti chiede lo sguardo lungo, cioè il coraggio della pazienza, che sa sopportare e non si lascia piegare da nessuna difficoltà».
L’uomo paziente è allora l’uomo che si muove entro ampi orizzonti e sa attendere a lungo, come il contadino, dopo la semina. Per questo la speranza è affidata a un terreno la cui vitalità è nascosta: l’attesa è lunga, ma anche certa. «Il cristiano», ci dice don Bruno, «fonda la sua speranza nella memoria del Dio di Gesù Cristo: il seme del suo Regno è deposto nella terra della storia umana e certo porterà frutto». Questa visione di fondo ispira il libro e le riflessioni dell’autore sugli aspetti fondamentali del cristianesimo, pensate per aiutare la lettura evangelica di questo tempo difficile, in cui i cristiani sono chiamati a vivere e testimoniare una speranza che non delude.
Dello stesso tema ci parla José Tolentino Mendonça, nell’articolo intitolato appunto «Sperare contro ogni speranza». Una sfida per il nostro tempo pubblicato sulla “Rivista del Clero” (3/2015). «In virtù del mistero pasquale di Cristo (Rm 5,5)» scrive il sacerdote e poeta portoghese, «la salvezza è in corso nel qui e nell’ora, nell’ordinario e nel quotidiano della vita». Il versetto evangelico a cui si rifà Mendonça ci riporta a san Paolo, definito «un maestro di speranza» perché ne fa uno degli elementi chiave dell’esistenza cristiana; il fedele o colui che possiede la fede, ci spiega, «è qualcuno che abita la speranza». La nostra esistenza, allora, è il risultato di un apprendistato della speranza, ed è la sola capace di dialogare col futuro e di renderlo più vicino. Continua Mendonça, citando il teologo tedesco Jürgen Moltmann «Il realismo ci insegna il senso della realtà. La speranza desta anche il nostro senso del possibile».
E sul possibile e il futuro dei cristiani si è interrogato spesso uno dei maggiori scrittori cattolici del Novecento, Mario Pomilio, di cui ricorre oggi l’anniversario dalla scomparsa. Negli Scritti cristiani, ripubblicati recentemente da Vita e Pensiero in un’edizione accresciuta, scriveva: «“Voi chi dite che io sia?” resta piantato lì e continua a risuonare anche per noi, chiamandoci a collaborare al discorso della fede, chiedendoci che siamo noi a pronunciarci su chi è Gesù, invitandoci insomma a diffidare degli atteggiamenti passivi, della fede facile. […] E se il punto di partenza – o il punto d’arrivo – sarà pur sempre la risposta di Pietro “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente”, lo spazio intermedio è tutto lasciato alle nostre interrogazioni, ai nostri slanci, alle nostre ansietà, finanche ai nostri dubbi, e comunque a una condizione che richiede giorno per giorno un itinerario di conversione».
Pomilio richiamava i cattolici a una fede “giovane”, in continua ricerca, in interrogazione continua «dei nodi misterici del suo messaggio […] perché quel messaggio è tale da voler essere testimoniato, incarnato nella storia». Parlava di “lieviti dell’inquietudine” che rendono il cristianesimo una religione che non è ma diviene, che non sta, ma si realizza, secondo una specie di meta mobile: «Come dire perciò che il cristiano è estraneo al mondo moderno, quando proprio un mondo in ricerca come quello moderno sembra fatto particolarmente per sentire le sue tensioni?» E sul Buon Pastore, la prima «forma» assunta dal Cristo nella storia delle arti, aggiungeva: «Raffigura a vari gradi la speranza e la salvezza: è il segno della misericordia di Gesù venuto per tutti e che addirittura privilegia il peccatore, è il simbolo dell’abbandono confidente nelle sue mani, raffigura la fiducia in lui in tempo di persecuzioni, prefigura l’oltretomba promesso a chi s’è affidato a lui, allude all’idea della mansuetudine e implicitamente della non resistenza al male come ai contrassegni morali del cristiano, diventa l’insegna d’una Chiesa che fa della mitezza la propria forza ed è pronta a perdonare coloro stessi che la perseguitano».
Buona Pasqua a tutti i lettori in cammino.