C’è ancora spazio per sognare? «L’abilità di far diventare realtà quello che abbiamo nella nostra mente è il motore del mondo» non ha dubbi Stefano Bertuzzi, laureato in Scienze agrarie, alimentari e ambientali all’Università Cattolica e oggi amministratore delegato dell’American Society for Microbiology di Washington
Lavora da oltre 20 anni con Anthony Fauci e ha collaborato nei mesi scorsi con la task force della Casa Bianca per risolvere i problemi legati ai test per il Covid-19. Ma non chiamatelo cervello in fuga: «l’importante è coltivare le proprie capacità e seguire i propri sogni, ovunque questi ci portino. Più che di fuga si deve parlare di mobilità dei cervelli: che gli italiani vadano all’estero va benissimo; sarebbe altrettanto auspicabile che gli stranieri venissero in Italia: nel mondo globale della conoscenza la strada è questa».
La pandemia da Covid 19 lo ha dimostrato: un vaccino ottenuto in tempi record, con un’accelerazione dei tempi mai vista nella storia.
«Pfizer è un’azienda molto seria e la notizia è davvero incoraggiante. Ma non dobbiamo pensare che con l’arrivo del vaccino tutto sia risolto: innanzitutto per questo vaccino c’è una coda di 7 miliardi di persone. Se non si vaccina il mondo, non funziona. Inoltre anche se sarà così efficace come dichiarato, il vaccino non sarà comunque la bacchetta magica del mago Merlino e non farà sparire il vaccino come d’incanto. Ci vuole tempo e dovremo convivere ancora per molto con le importantissime misure di prevenzione messe in atto».
La strada di Stefano Bertuzzi parte da Piacenza, dove ha frequentato la facoltà di Agraria; a Cremona si è specializzato in biotecnologie e da lì è volato negli States. Ma ancora oggi è fiero ambasciatore dell’Università Cattolica nel mondo.
«Ho bellissimi ricordi della mia università e sono molto grato della formazione che ho ricevuto. Ci sono in particolare due docenti della Cattolica a cui devo molto: uno è il prof. Domenichini con cui ho fatto la tesi, tra entomologia e microbiologia: la sua dedizione e la sua passione per quello che faceva mi ha colpito come studente e mi ha ispirato in tutto il mio percorso».
E chi altro?
«L’altra persona a cui devo molto è il professor Bottazzi, il direttore di Microbiologia che mi aveva ammesso nel suo Istituto, con cui ho fatto il dottorato a Cremona e con cui ho potuto maturare una passione approfondita per la materia. Il prof. Bottazzi mi ha poi fornito il trampolino per venire negli Stati Uniti. Dovevano essere sei mesi e sono qua da trent’anni: noi programmiamo e Dio ride dei nostri disegni. Senza queste opportunità non avrei potuto intraprendere la mia carriera di ricercatore prima e adesso di amministratore».
Del periodo “italiano” Bertuzzi ricorda soprattutto le persone, quelle che gli dicevano che era già americano quando ancora era nel nostro Paese.
«Ho molti amici con cui mi sento ancora quotidianamente. Sto molto bene negli Usa: gli americani ti accolgono a braccia aperte, ma non le stringono mai. È una società molto aperta, in cui è facilissimo creare rapporti, ma manca quel senso di profondità nelle relazioni che invece ho sperimentato in Italia. Per questo custodisco con orgoglio e cura le amicizie e le relazioni di quegli anni».
E allo Stefano Bertuzzi neolaureato cosa direbbe?
«Quello che direi al me stesso di allora e a tutte le persone che si laureano adesso è pensare alla scienza come un percorso che permette di equipaggiarti per risolvere problemi complessi. E questa è una cosa di cui c'è molto bisogno nel mondo, ovunque la si voglia applicare. La ricerca è futuro, è speranza, è creatività. Una cosa che io non avevo capito è che fare ricerca non è tanto imparare delle nozioni o delle tecniche o farsi delle domande ma creare situazioni in cui riesci a risolvere dei problemi molto complessi. È la capacità di essere analitici, al confine tra il conosciuto e lo sconosciuto. All'inizio genera grandissime frustrazioni però ti tempra e ti aiuta ad affrontare la vita in generale».