di Roberto Cauda *
Dal 1976, anno in cui per la prima volta è stata identificata nell’ex-Zaire, la malattia da virus Ebola, quella attuale è senz’altro l’epidemia più grave ed estesa che si sia mai verificata. Un altro elemento di assoluta novità rispetto al passato è che, con il caso dell’infermiera spagnola, per la prima volta si è verificata la trasmissione di Ebola al di fuori del continente africano. Oggi il numero dei contagiati assomma a 6.500 e quello dei morti ad oltre 3.000. Il paese più colpito è la Liberia che ha un numero di morti che supera i 1.800. La crescita del numero dei casi e di conseguenza quello dei decessi, avviene a un ritmo incessante e veramente preoccupante. Alcune stime accreditate ipotizzano che il numero degli infetti possa raggiungere ai primi di novembre la cifra di 20.000.
Rispetto al passato quello che più impressiona è l’ampia diffusione dell’infezione che non accenna a diminuire e che coinvolge tre paesi dell’Africa Occidentale: Sierra Leone, Guinea, Liberia, con alcuni casi segnalati in Nigeria.
Il caso zero all’origine dell’epidemia in atto, è quello di una bambina di due anni che è morta di Ebola in un piccolo villaggio del Sud est della Guinea il 6 dicembre del 2013. Quest’area è molto vicina ai confini con la Sierra Leone e la Liberia, il che può spiegare la diffusione che c’è stata in questi Paesi. Non c’è stato un immediato allarme e solo nel marzo del 2014 il Ministero della Salute della Guinea e Medecins Sans Frontiers (che è stata fin da subito in prima linea) ha riferito di una malattia misteriosa caratterizzata da febbre, diarrea e vomito che si diffondeva nella regione del Sud-est del paese e che era caratterizzata da alta mortalità. Solo successivamente questa malattia è stata identificata come Ebola e confermata tale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Dal 1976 al 2013 c’erano state altre epidemie di Ebola che erano avvenute tutte nei paesi dell’Africa Sub-Sahariana: Congo, Gabon, Sud-Sudan, Uganda. Personalmente sono stato testimone indiretto dell’epidemia che è avvenuta nel 2000 tra ottobre e dicembre nella città di Gulu nel nord dell’Uganda e che è stata ben descritta da Fratel Elio Croce, missionario comboniano al St. Mary’s Hospita Lacor.
L’Ebola è particolarmente grave perché si trasmette attraverso un contatto stretto con sangue e liquidi biologici, il che rende molto delicato il ruolo di chi si prende cura degli ammalati. Non meno delicato, se non eseguito mettendo in atto particolari precauzioni, è il momento del funerale di chi è morto per Ebola perché anche questa può essere un’occasione di trasmissione del virus.
La contagiosità della malattia si manifesta con la comparsa dei sintomi, il che usualmente avviene circa 2-3 settimane dopo aver contratto il virus. Al di fuori delle epidemie, il virus persiste in serbatoi animali (pipistrelli, scimpanzé) che possono occasionalmente trasmetterlo all’uomo, dando inizio all’epidemia. La riduzione della foresta pluviale, con la limitazione dell’habitat naturale di questi animali, rappresenta senz’altro un fattore di rischio aumentando le possibilità di contatto tra animali infetti e uomo.
I sintomi iniziali della malattia comprendono febbre improvvisa, debolezza, dolori muscolari, mal di gola (ricordano quelli dell’influenza), a questi fanno seguito quelli più specifici e gravi: vomito, diarrea, emorragie interne ed esterne che favoriscono la trasmissione della malattia.
La mortalità dell’Ebola è particolarmente elevata dipendendo dal tipo di virus (sono 5 diversi) oscillando tra 50 e 90%. L’epidemia attuale sembra caratterizzarsi per una particolare gravità attestandosi su percentuali elevate di mortalità. A oggi non esiste una cura specifica. Sono stati impiegati, con vario successo e in maniera sperimentale, anticorpi monoclonali che attaccano il virus, siero di convalescente, clorochina.
È anche in fase di sviluppo un vaccino specifico i cui tempi di introduzione non si possono al momento prevedere. L’assenza di una specifica terapia e di un’efficace vaccino a distanza di quasi 40 anni dall’identificazione della malattia, deve a mio giudizio indurre una riflessione. Si è sottovalutato il rischio di una malattia così grave, perché probabilmente la si considerava lontana e in qualche misura si pensava che non ci riguardasse.
Oggi, dobbiamo augurarci che questo tempo perduto possa essere rapidamente recuperato e che la scienza sostenga efficacemente la lotta all’Ebola che non è più un problema locale africano, ma globale.
Di fronte a epidemie, specie, se così gravi, sorge spontanea la domanda se vi siano rischi per la salute del nostro Paese. Personalmente ritengo, per una serie di considerazioni legate alla modalità di trasmissione della malattia, incubazione, ecc. che il rischio sia basso anche se non si può escludere che vi possano essere casi di importazione come è avvenuto per il paziente liberiano negli Stati Uniti.
L’importante è che gli eventuali casi, anche quelli sospetti, siano correttamente identificati e isolati mettendo in atto tutte le misure idonee ad impedire la diffusione. Non dimentichiamoci che alla base dell’attuale epidemia c’è un ritardo di alcuni mesi dal momento in cui si è verificato il primo caso a quando la malattia è stata identificata come Ebola. L’esistenza in Italia delle unità ospedaliere di malattie infettive è forse la migliore garanzia per il cittadino che pur in presenza di una grave minaccia come quella rappresentata dall’Ebola, ci sarà un’efficace azione. Auguriamoci, visto che le malattie infettive persistono e le epidemie si susseguono a periodica scadenza, che in futuro nessuna spending review le tagli.
* Direttore Istituto di Clinica delle malattie infettive, Università Cattolica del Sacro Cuore