Fare la spesa al supermercato: c’è chi ci mette pochi minuti, entra, mette nel carrello ciò che serve, paga senza farsi troppe domande; c’è chi presta particolare attenzione a ciò che acquista, ai prezzi, alle offerte del momento, conta i centesimi e sceglie oculatamente tra un prodotto e l’altro o rinuncia, perché i soldi in tasca non bastano. La povertà alimentare in Italia è molto più vicina a noi di quanto possiamo pensare.
È quanto emerge dalla ricerca dell’Università Cattolica Food poverty, Food bank. Aiuti alimentari e inclusione sociale, curata da Giancarlo Rovati, docente di Sociologia, insieme a Luca Pesenti, che insegna Sociologia generale, e raccolta nel libro omonimo edito da Vita e Pensiero, in libreria dal 30 giugno. Lo stesso giorno la ricerca, promossa da Banco Alimentare, dalla Fondazione Deutsche Bank Italia con i contributo tecnico di PWC, è stata presentata a Expo presso la Cascina Triulza alla presenza del ministro per le Politiche agricole Maurizio Martina, del giornalista televisivo Massimo Bernardini, del presidente del Banco Alimentare Andrea Giussani e di altri rappresentanti di enti caritatevoli.
La ricerca arricchisce le statistiche ufficiali di Istat ed Eurostat, ed è il secondo capitolo di un rapporto sulla povertà alimentare pubblicato nel 2009 a cura di Campiglio-Rovati. «Il dato più impressionante», ci spiega Rovati, «è la dimensione del peggioramento della povertà assoluta: nel 2007 si contavano 3 milioni e mezzo di poveri e 1 milione di famiglie indigenti; nel 2013 siamo arrivati a 6 milioni di poveri e 2 milioni e mezzo di famiglie». Un aumento netto del 100%, all’interno del quale 5 milioni e mezzo di persone sono in effettivo affanno alimentare, cioè, continua il professore «non riescono a mantenere una dieta equilibrata, proteica, con carne, pollo o pesce». Non si muore letteralmente di fame, ma se si pensa che le famiglie più colpite sono quelle con più figli si capisce quanto uno squilibrio dietetico possa essere deleterio.
«Il sondaggio Eurostat ha un approccio più soggettivo rispetto ai dati Istat perché il questionario poneva la domanda “Ti è mai capitato di avere difficoltà nel servire un pasto proteico in tavola almeno ogni due giorni?”; se nel 2007 solo il 6% delle famiglie ha risposto affermativamente, nel 2013 la percentuale è arrivata al 14,2%».
Ma qual è il volto di questa nuova povertà? «Siamo di fronte a una rivoluzione sociologica» ci spiega Pesenti «sono saltati i paradigmi; i poveri non sono solo immigrati, ma anche gli italiani sono in aumento e oggi arrivano a pareggiare il numero di stranieri in difficoltà. La componente di peso interno dei poveri che si rivolgono al Banco Alimentare è identica tra le due parti».
La crisi economica ha fatto crescere il tasso di disoccupazione che non solo aumenta ma si prolunga nel tempo con una caduta diretta del reddito. I disoccupati sono quindi al primo posto di persone che si rivolgono agli enti caritativi, «seguiti dai cosiddetti working poors e dai pensionati, ovvero persone a cui non bastano i soldi guadagnati per assicurarsi tutti i giorni un pasto», continua Pesenti che aggiunge: «ci sono anche nuove categorie di poveri: gli indebitati e le madri single o separate; il volto della povertà è cambiato. La crisi, non solo economica, ha introdotto una discontinuità evidente».
L’incidenza della food poverty in Italia è quindi raddoppiata nell’ultimo decennio ed è un problema che riguarda soprattutto i minori: «I bambini poveri sono in mezzo a noi e soprattutto li troviamo nel Sud del nostro Paese; dei 5 milioni e mezzo di persone in affanno alimentare, 1,3 milioni sono minorenni, soprattutto stranieri», racconta Rovati che aggiunge quanto a soffrire di questa condizione siano anche gli anziani, di meno in senso relativo ma più numerosi tra gli italiani.
Siamo quindi di fronte a una vera e propria emergenza, che ci pone molto al di sotto della media europea (siamo il Paese che, rispetto al 2007, ha visto aumentare di più la percentuale di persone in condizioni di povertà alimentare) e che al momento non ha un progetto statale unitario che possa risollevare la situazione. Molto fanno le associazioni caritatevoli, gli enti come il Banco Alimentare, la Caritas ecc., ma dalla ricerca emerge che il 66% degli enti che in questo momento si occupano di questo tipo di sostegni non sarebbe in grado di gestire un aumento delle richieste d’aiuto.
Secondo Rovati «bisogna curarsi di chi aiuta, delle food bank», di fronte al deficit pubblico infatti sono attivi 17 mila enti caritativi che non hanno mai smesso di lavorare per contrastare la povertà. «Il mio non è uno slogan semplicemente ottativo» - continua il professore che dal 2002 al 2007 ha presieduto la Commissione nazionale di indagine sull’esclusione sociale (Cies) -: «chi aiuta parte da una positività che ha saputo ridistribuire ai poveri alimenti donati da diversi rivoli; nel tempo le associazioni sono cresciute ma purtroppo anche il numero delle persone bisognose; quello che non è cresciuto, anzi si è interrotto per alcuni anni, è il numero delle risorse alimentari da distribuire».
Nel corso dell’evento Expo, complice anche la presenza del ministro, si è discusso di come lo Stato deve e può migliorare il supporto dato agli indigenti. Cosa è auspicabile per il futuro? Secondo Pesenti servono «persone competenti, uno snellimento burocratico che invogli le aziende a pratiche virtuose. Più di un obbligo di legge un incentivo sarebbe la cosa migliore; il dono non deve essere una costrizione, fa parte anche della crescita culturale di questo Paese».
A oggi le aziende tendono a non fare o a nascondere eventuali recuperi di merce che magari non viene messa in vendita solo per un problema di packaging, «perché viene percepito come un fallimento produttivo controproducente agli occhi dell’acquirente», spiega Rovati «sarebbe invece un recupero dello spreco a beneficio di chi è in difficoltà; ma lo Stato deve collaborare con chi in questo momento fa parte delle rete solidale, con il terzo settore che negli ultimi anni ha fatto in modo che l’aumento di povertà non fosse visibile agli angoli delle nostre strade».
Nella filiera agro-alimentare il recupero è possibile, «serve però un potenziamento logistico della distribuzione e del trasporto e un piano unitario che non parcellizzi aiuti economici a pioggia, e comunque insufficienti, distribuiti dai comuni senza creare rete, senza un piano di inclusione sociale, perché la povertà non è solo nei libri, nei grafici» conclude il professore «è attorno a noi».