Essere dotato di conoscenze tecniche, di un’attitudine a sviluppare continuamente l’apprendimento, ma soprattutto di competenze trasversali, ovvero capacità di problem solving, di analisi, di saper formulare giudizi, di esprimersi nel dovuto modo, di lavorare in gruppo. È l’identikit del “talento di oggi” che Umberto Frigelli, consigliere nazionale per AIDP Lombardia, l’Associazione italiana per la direzione del personale con più di 3.000 associati in tutta Italia, ha tracciato nell’incontro “Costruire il talento: smart organization o smart people?”. Le risorse umane sono state, infatti, il fil rouge della quarta giornata dell’Open Week Master & Postlaurea dell’Ateneo che complessivamente ha raggiunto 15.685 persone, ottenuto 987 interazioni, registrato 3.967 visualizzazioni.

Sono passati vent’anni da quando tre consulenti della McKinsey hanno coniato il termine “guerra dei talenti” eppure il tema della costruzione del talento resta ancora molto dibattuto e al centro della People strategy di molte organizzazioni. Soprattutto in questo momento di profonda trasformazione digitale del lavoro che gli effetti della pandemia hanno contribuito ad accelerare. Ma quali sono le sfide attuali per i giovani che stanno costruendo i loro percorsi? Secondo Frigelli, sollecitato dalle domande di Roberto Reggiani, dello Stage&Placement dell’Università Cattolica, che ha moderato l’incontro, sono appunto «le attitudini, oltre che le competenze specifiche, a essere messe per prime sotto la lente di ingrandimento del mercato del lavoro». Tuttavia, se si parla di giovani, una competenza chiave resta la «conoscenza dell’inglese».

Le competenze contano ma anche il contesto lavorativo è fondamentale. Lo ha specificato Silvio Ripamonti, docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni, chiamando in causa la doppia lettura che il termine talento sottende a partire dalla sua etimologia. «Talento deriva dal greco tàlanton e si riferisce al piatto della bilancia che ha sempre connotato il talento, con il senso della direzione che ciascuna persona ha. Quindi il talento, in questo caso, è pensato come una dote che se non c’è non si può imparare. Ma ad Atene il talento era anche una somma di denaro che corrispondeva a 20 chili di argento». Ora, ha continuato Ripamonti, «questa seconda metafora interpreta la parola talento come uno stato potenziale su cui investire: tutti hanno la loro quantità di argento da mettere in campo. Ma questo non è scontato e affinché tutte le persone si sentano ingaggiate devono essere due le condizioni fondamentali: la presenza di un ambiente lavorativo attento, la seconda condizione è che ne valga la pena».  

Ed è qui che diventa cruciale il ruolo del management. «I capi contano tanto, solo che fare il capo in un contesto in cui le organizzazioni continuano a cambiare è sempre più difficile», ha osservato Barbara Imperatori, docente di Organizzazione aziendale. «Il capo in una relazione di lavoro non è più quello che un tempo sapeva fare qualcosa meglio di altri ma è colui che fa la cosa giusta, crea significato a quello che stiamo facendo, aiuta a sbrogliare la matassa». Ecco perché «in questa fase di grande evoluzione tecnologica ci vogliono capi che si mettano al servizio dei collaboratori, sappiano orientare le scelte, abbiano una visione, creino un contesto in cui una persona può svolgere quello che è chiamato a fare». Tuttavia le stesse università, ha chiarito la professoressa Imperatori, sono chiamate a costruire talenti e per farlo servono tre condizioni: «Aiutare le persone a comprendere quali sono i propri talenti, trasferire conoscenze tecniche che forniscano gli attrezzi del mestiere, dare un metodo scientifico per la risoluzione dei problemi».

Già perché il compito delle università, ha fatto eco Luigi Serio, docente di Economia e gestione delle imprese, «è trasferire competenze e la capacità di combinarle», «aiutare i nostri ragazzi ad avere un approccio inclusivo» per «ricreare una funzione sociale di impresa dove le persone possano trovare un senso».

Un dato resta chiaro: questa esperienza del lockdown è stata interessante perché in molti casi le imprese sono andate avanti anche se non c’era il «controllo occhiuto del capo». Pertanto, ha rimarcato il giuslavorista Vincenzo Ferrante, il «talento è importante se non lo si seppellisce», per questo è fondamentale l’organizzazione che va però modificata per renderla più efficiente e produttiva.