«Mi piacerebbe sapere con precisione il perché dell’enorme successo di “La metà di niente” in Italia nel 1998, perché, se fossi capace di rispondere a questa domanda, sarei in grado di replicare il successo ovunque». La scrittrice irlandese Catherine Dunne risponde così quando le chiediamo perché è così amata nel nostro Paese, a margine della presentazione di un volume da lei curato (qui a lato).
«Quella del ’98 per me è stata una piacevolissima sorpresa, come una tempesta perfetta - spiega -. A volte accade che un libro esca nel momento giusto, e questo è uscito in un periodo in cui le donne italiane si sono ritrovate particolarmente in sintonia con la storia narrata. In Italia c’è sempre stata una grande attenzione per la letteratura irlandese, e la cosa non può che farmi piacere. Un altro fattore determinante è stata la lungimiranza dell’editore Guanda che lo ha pubblicato: fatto piuttosto inusuale nel mondo dell’editoria».
L’Italia e l’Irlanda hanno molto in comune, tra cui storie di migrazione, importanza della famiglia, retroterra cattolico, difficoltà nell’affrontare l’ultima crisi economica. Il pubblico irlandese è ricettivo nei confronti della letteratura italiana? «L’Irlanda è un’isola, e per definizione chi vive su un’isola è più sensibile e aperto nei confronti di letterature diverse dalla propria. Questo è uno degli aspetti più belli del vivere in Irlanda, e trovo che gli irlandesi siano particolarmente recettivi a tutte le forme letterarie, tra cui quella italiana. Questo caso non è diverso dagli altri: sono stati incuriositi dall’idea che due diversi gruppi di scrittori, uno italiano e uno irlandese, si siano uniti per guardare alla stessa esperienza da molteplici punti di vista, quindi il libro è stato molto ben accolto».
Il tema della migrazione ci porta ad affrontare anche quello dell’estraniamento, che, insieme a quello della ricerca di un’identità, è tra i temi trattati nell’antologia. Secondo lei le storie narrate nel libro toccano aspetti cruciali dell’attuale migrazione di massa verso l’Europa? «Penso che uno dei motivi per cui gli scrittori abbiano scelto questo tema è perché è molto ricco e fecondo e può essere trattato da diversi punti di vista. Trovo affascinante che le storie inizino con un punto di vista personale e si aprano a quello generale, passando, per esempio, dall’alienazione fisica a quella psicologica, dal livello familiare a quello della comunità. Il libro risulta particolarmente significativo oggi, perché nella migrazione di massa la gente fugge dalla guerra, dalla fame e dal terrore cercando un’altra vita e questa ricerca è metafora di ciò che ognuno di noi tenta di fare in modi diversi: cercare una vita migliore».
Le donne amano i suoi libri, ma lei ha affermato di non scrivere specificamente per il pubblico femminile. «Io scrivo per i lettori, l’ho sempre affermato. Non mi piacciono le etichette che indicano questo o quello scrittore come “femminista” o “socialista”, né nessun altro tipo di “ismo”. Gli scrittori creano, e per me è il processo creativo che conta. Come la maggior parte degli scrittori che conosco, io scrivo storie, non risposte a polemiche o alla necessità di essere didattici. La maggior parte delle mie storie sono narrate dal punto di vista delle donne, perché quando ho iniziato a scrivere mi sono accorta che gli uomini occupavano da sempre lo spazio pubblico, mentre le donne quello domestico. Inoltre, io sono cresciuta in un ambiente dove quasi tutta la letteratura, salvo poche eccezioni, era rurale e maschile, mentre io sono donna e cittadina. Nessuno scriveva per me, per cui ho deciso di scrivere per me stessa».
Nell’introduzione al volume, Lei e Federica Sgaggio scrivete che “l’antitesi di estraniamento, distacco, alienazione è, ovviamente, l’amore”. Nei Suoi libri l’amore è un tema ricorrente, insieme alle relazioni familiari e all’amicizia. Questi temi sono entrati nei Suoi libri perché particolarmente importanti per Lei o perché li considera i fondamenti su cui si basa la società umana? «I miei libri sono incentrati sui miei personaggi e su quello che li spinge a comportarsi nei modi più diversi. Penso che per istinto siamo portati naturalmente a creare connessioni e ad amare. Parliamo di relazione tra un uomo e un donna, dell’amore dei genitori per i figli o di un tipo di amore che sta acquisendo sempre più importanza oggi: l’amore per gli amici. Sono i miei personaggi a decidere le sorti della storia di cui sono protagonisti, non io, e i pilastri che li tengono in piedi sono rapporti solidi e un forte senso di giustizia sociale. Entrare in relazione gli uni con gli altri e amarsi, non di un amore sentimentale e sdolcinato, ma di un amore profondo, prenderci cura gli uni degli altri, lottare per l’eguaglianza e la giustizia sociale sono tutte forme d’amore e rappresentano i pilastri su cui dovrebbero fondarsi tutte le nostre società».
L’estraniamento ha un vantaggio: sempre nell’introduzione a “Tra una vita e l’altra” si legge che “scrivere significa anche essere outsider”, per sentirsi più vicini all’esperienza dei migranti. È lo stesso metodo che persegue quando scrive? «Tutti gli scrittori, in quanto tali, sono dotati dell’abilità di osservare la realtà con un’intensità che forse gli altri non hanno. È un’inclinazione con cui si nasce, non penso che possa essere acquisita o insegnata. Si tratta di uno strano tipo di dualismo che porta a essere allo stesso tempo distaccati e assorbiti dal personaggio creato. Ed è un paradosso: nel processo di scrittura, infatti, occorre prima entrare nella pelle dei personaggi, poi fare un passo indietro e uscirne per poter scrivere di loro».