Anche quest’anno il Centro di Iniziative e ricerche sulle migrazioni – Brescia (Cirmib) ha presentato l'Annuario 2013 “Immigrazione e contesti locali” per offrire le più aggiornate elaborazioni statistiche e per comprendere le dinamiche del fenomeno e i processi di accoglienza/integrazione a livello locale. Il dato su cui riflettere è il rallentamento dei flussi di ingresso - dal 6-7% annuo al 4,5% del 2012 - dovuto all’acuirsi della crisi economica e occupazionale in Italia e, di conseguenza, la stabilizzazione di alcuni indicatori di permanenza che vanno di pari passo con altri indicatori di regressione del fenomeno.
In valori assoluti, gli stranieri residenti in provincia di Brescia sono passati da 170.736 a 163.029 (ultimo bilancio demografico 1.1.2013) e la loro incidenza sulla popolazione complessiva è retrocessa dal 13,6% (2011) al 12,6% (2012), mentre in Italia dal 7,5% al 6,8%. La crescita nel 2012 è stata inferiore a quella delle altre province lombarde e alla media regionale. Brescia non rappresenta più un polo di attrazione per i newcomers. Le cancellazioni per l’estero (rimpatriati e migranti verso altre destinazioni europee) nel 2012 hanno riguardato 1540 persone nel bresciano.
L'incidenza degli stranieri sul totale dei residenti nel Comune di Brescia (16,6%) e nella provincia di Brescia in genere (12,6%) è, comunque, ancora di molto superiore all'incidenza media in Lombardia (9,8%) e in Italia (6,8%).
Per quanto riguarda il lavoro, la manodopera straniera, seppur facendo i conti con la crisi economica che la colpisce relativamente più di quella italiana (-7% avviamenti al lavoro; -7,3% di avviati stranieri, contro -4,6% italiani), ha ancora chance di trovare un lavoro dopo che si è interrotto un rapporto precedente, grazie alla sua maggiore versatilità e disponibilità a cambiare mansioni. La quota più alta di nuovi avviamenti al lavoro, nel corso del 2012, si è verificata nei settori edilizio, meccanico e della ristorazione. Non è da sottovalutare la crescita del tasso di disoccupazione tra gli stranieri (dall’11,8% sono passati al 12,1%).
Sembra che il welfare locale a Brescia abbia contribuito discretamente a garantire stabilità e a sostenere i processi di integrazione: la partecipazione scolastica dei minori è in aumento (+4,8%) e l’incidenza percentuale degli allievi stranieri sul totale della popolazione scolastica complessivamente ha raggiunto una cifra davvero significativa: 17,1% (quattro punti percentuali in più della media regionale e 9 punti percentuali in più della media nazionale). Molto importante è il confronto tra ordini di scuola: i primi tre segmenti dell’istruzione (scuola infanzia, scuola primaria, scuola secondaria di primo grado) registrano tassi equivalenti di presenza straniera, poco meno del 20%, che è composta da una parte sempre più elevata di minori stranieri nati in Italia (seconde generazioni propriamente dette): a Brescia sono nati in Italia quasi tutti i bambini della scuola dell’infanzia che hanno genitori stranieri (83,3%), due su tre di quelli che frequentano la primaria (62,8%), e uno su tre di quelli che frequentano la secondaria di primo grado (31,2%).
Sono in continua crescita gli studenti stranieri anche nei gradi alti della formazione sia nelle scuole secondarie di secondo grado (incidenza 11,3%, di cui 1 su 10 è nato in Italia), sia nella formazione professionale regionale (incidenza 19,8%, con un aumento dello 0,8% dal 2011), sia infine nelle università (incidenza 6,6%, con un aumento di 0,5% dall’anno accademico 2011/12). Siamo davvero di fronte a un cambiamento di “volto” di una delle più importanti istituzioni sociali e culturali, il sistema formativo, che è segno del farsi avanti di una realtà educativa multiculturale (e l’area bresciana ne è, in un certo senso, l’avamposto), che apre la strada alle legittime richieste di cittadinanza da parte delle seconde generazioni, per non essere più solo “residenti” ma anche cittadini a tutti gli effetti. I fenomeni fin qui riassunti fanno capire che le comunità locali, ormai interessate da un multiculturalismo diffuso, al pari di “organismi” viventi stanno reagendo alla congiuntura economica e sociale facendo leva su diversi fattori di protezione e prevenzione, come descritto nell’Annuario che, accanto alle consuete indagini statistiche, dipinge tutta una serie di buone pratiche locali, esperienze pionieristiche nell’ambito del co-sviluppo, della formazione ai carcerati, dell’accesso dei migranti al patrimonio culturale.
L’Annuario pubblica anche una elaborazione specifica, promossa dal Comitato direttivo del Cirmib sui dati di una indagine europea Evs – European Values Survey (dati raccolti nel 2008/09) in 48 paesi (tra cui l’Italia), che ha misurato l’indice di distanza sociale e l’indice di xenofobia. I dati confermano che l’Italia non risulta interessata da fenomeni acuti di razzismo e xenofobia, per lo meno in confronto ad altri Paesi dell’area europea ed extraeuropea. Ma la distanza sociale e la xenofobia aumentano significativamente in quella parte di società che è collocata nelle regioni del Centro e del Nord-Est, in centri di piccole dimensioni (sotto i 20mila abitanti) dove è più forte il “campanilismo” che si associa a “paura dell’altro”. Vi è poi una relazione statistica tra gli atteggiamenti di diffidenza e i bassi livelli di istruzione e l’età più avanzata. Sono infine più distanti e più xenofobi quei cittadini che si collocano politicamente a destra, rispetto a chi vota formazioni di sinistra, e coloro che si mostrano più scettici verso l’Europa (non si fidano delle istituzioni europee e non sono d’accordo con il progressivo allargamento).
Il dato più interessante che emerge dalla ricerca è che esiste una relazione statistica tra il fatto di dichiararsi credenti praticanti (indice di religiosità ecclesiale), conformi ai precetti religiosi (indice di conformità religiosa-etica ecclesiale) e gli atteggiamenti di distanza sociale e xenofobia: viene smentita l’idea corrente che chi pratica la religione e frequenta ambienti sociali di chiesa sia più aperto nei confronti degli stranieri, in quanto oggetti di attenzione caritatevole. La spiegazione fornita è che l’appartenenza a una comunità religiosa connota un gruppo di cittadini che hanno in comune tre caratteri spesso associati tra loro: età anziana (oltre i 66 anni si accresce la probabilità di essere xenofobi), basso livello di istruzione e elevata conformità ai precetti religiosi. La spiegazione che si può avanzare è che la traduzione dei messaggi della Chiesa da parte dei suoi fedeli, che avviene attraverso i sacerdoti impegnati sul territorio, non arriva a intaccare un sentimento di paura che è molto più profondo, una domanda implicita di sicurezza.