di Alice Giulia Daverio *

Nella confusione di impressioni, di immagini ed emozioni, che mi vorticano in testa dopo il mio Charity Work Program in Ghana, riesco a distinguere solo alcuni frammenti.

Ci sono i volti delle persone che ho conosciuto. Che segno mi hanno lasciato questi incontri? C’è la fatica di relazionarmi con persone provenienti da una cultura diversa, in una lingua straniera, di doversi sforzare di capire quando ciò che vedevo e sentivo non corrispondeva a ciò che mi aspettavo o quando avevo la sensazione che dietro una frase o un comportamento si nascondessero significati che a me inevitabilmente sfuggivano. 

Studiando Cooperazione allo sviluppo, mi sono imbattuta spesso in espressioni come “differenza culturale”: sai che esiste, sai anche che cosa significa ma prima di oggi non sapevo come ci si sentisse a parlarsi e non capirsi, non perché sia la combinazione delle parole a suonare incomprensibile ma perché è il non detto che non si riesce ad afferrare. Eppure, c’è anche il calore di una familiarità che non mi aspettavo di trovare, ci sono la gioia e il terrore di scoprirsi diversi e l’ostinazione affettuosa di volersi capire. 

C’è la meraviglia di aver viaggiato 5.000 chilometri lontano da casa tua (anche di più se fai scalo a Istanbul) e trovare delle amicizie così sincere che alla fine ci ritrovi un po’ anche te stesso.

C’è l’euforia di esplorare paesaggi nuovi, di addentrarsi nella foresta tropicale. C’è il piacere di abituarsi anche ai gusti insoliti, di innamorarsi della tilapia e del fufu, di mandar giù un green pepper quasi con scioltezza, e poi quello di scoprirsi a proprio agio in luoghi che prima erano tutti nuovi, di sorprendersi a canticchiare le hit dell’estate ghanesi, di prendere il trotro (minibus ghanese) senza (quasi) perdersi, di trovarsi nella voce i suoni del Ghana. E c’è la soddisfazione nostalgica dei racconti agli amici, due frasi in twi ed ewe, l’ossessione per l’Orijin, le formiche che pizzicano, il disagio dei viaggi in auto sulle strade dissestate.

Poi mi balenano davanti agli occhi le immagini del campo profughi di Buduburam. Che cosa ho provato a percorrerne i vicoli fangosi? Un campo rifugiati dovrebbe comunicarti miseria, angoscia di una vita stentata, che da 20 anni è la quotidianità di più di 40.000 persone da tutto il West-Africa. E certo, le strade qui sono fango, i bagni gli angoli delle vie, o al massimo latrine pubbliche dove la carta igienica è un lusso per pochi, l’acqua corrente un sogno lontano. Tuo zio abita accanto agli spacciatori e nel locale dove esci la sera rischi di venire accoltellato. 

Ma quello che questa visita ha comunicato a me è qualcosa di diverso che non so ancora bene definire. Non voglio parlare di resilienza, di voglia di vivere, di speranza o di qualche altro concetto retorico che qui stonerebbe proprio. Ma ho visto esercizi commerciali, qualcuno che vendeva televisioni, gruppi di amici che si ritrovano per bersi una birra insieme, un baracchino adibito a cinema. E ho visto un gruppo di giovani liberiani determinati, che scherzavano e ridevano attorno a un tavolo, discutendo di come poter aiutare i membri della comunità. E non mi sono sentita angosciata, ma elettrizzata. Questo campo mi ha trasmesso forza, mi ha dato una sensazione di invincibilità. 

E poi c’è l’alienazione, questa la riconosco bene, di tornare a casa e avere la sensazione di dover ricominciare tutto da capo, sentirsi come un elastico che è stato tirato troppo forte e troppo a lungo e ora non può più tornare alla forma originale, resterà sempre un po’ sformato. 

Ero partita sperando di tornare con tante risposte. Ora sono qui con mille domande, zero certezze e un turbinio di emozioni incoerenti ma sono grata per ciascuna di esse. E, devo dire, sono contenta di aver dato al Ghana la possibilità di (s)formarmi un po’, di entrarmi dentro e scombinarmi le certezze che avevo. E dopotutto una certezza ce l’ho: due mesi non bastano e, soprattutto, non bastano a me. 

* 23 anni di Gavirate (Va), secondo anno del corso di laurea magistrale in Politiche per la cooperazione internazionale allo sviluppo, facoltà di Scienze politiche e sociali, campus di Milano (nella foto con i pantaloni rossi)