Victor Hugo era uno scrittore pieno di difetti, intriso di manie di potenza, e la sua retorica esagerata ne era la dimostrazione più lampante. Tuttavia, forse è proprio per questo motivo che i suoi personaggi, con un tale livello di parossismo, divennero memorabili e sono ricordati ancora oggi.
Del romanzo e del suo straordinario autore, ha parlato Davide Vago, docente di letteratura francese in Cattolica, dopo l’introduzione di Lucia Mor, coordinatrice del ciclo di “Letteratura & Teatro”. Ha accompagnato la spiegazione Antonio Palazzo, attore la cui esperienza nasce proprio nel Centro Universitario Teatrale.
“I Miserabili” fu pubblicato nel 1862, contemporaneamente a Bruxelles e a Parigi. Hugo vi lavorò per più di trent’anni, mentre si trovava in esilio volontario. Il titolo originale del romanzo doveva essere “Misère”, ma la riflessione politica, dovuta al continuo contrasto tra ideali bonapartisti e democratici, ha ampliato quest’idea iniziale, portandolo a focalizzarsi maggiormente sugli individui, sui reietti della società, i cosiddetti miserabili.
Il popolo è in marcia verso il progresso sociale, morale e politico, così le vicende personali per la lotta alla sopravvivenza vanno di pari passo con l’affresco sociale, con l’epopea del popolo stesso. Secondo Hugo, la missione dello scrittore è “auscultare” la modernità; egli deve rappresentare la realtà con uno sforzo di elucidazione delle leggi che regolano la vita sociale in un determinato periodo. Appare quindi una società matrigna, nella quale il destino getta il miserabile, costretto a rubare, in un vano tentativo di sopravvivere, e poi lo mette in una prigione abbastanza crudele da farlo diventare un assassino.
Il personaggio più importante, quello che può essere definito come il protagonista, è sicuramente Jean Valjean, un ex galeotto. Nella sua vita, egli trova la strada della redenzione, ma essa sarà molto lunga e tortuosa.
Fin dalle prime pagine, tuttavia, si riesce a scorgere una natura divina, che sarà fondamentale per il percorso dell’uomo. Viene introdotta quindi la figura dell’arcivescovo Myriel, che, con sorpresa dello stesso galeotto, lo perdona e lo difende davanti alla polizia, nonostante sappia con certezza che lo abbia derubato dei candelabri. La luce spirituale si fonde con quella materiale dei suddetti oggetti e segna l’inizio dell’avventura dei miserabili. Nella loro vita, la luce divina dipana le tenebre che li tengono prigionieri.
Nel corso della narrazione, compaiono molte altre figure di fondamentale importanza, tra cui Fantine, una giovane madre che viene lasciata a crescere da sola la figlioletta, Marius, che ricorda lo stesso Hugo in qualità di uomo politico, e Gavroche, un monello che, oltre a fungere da messaggero tra Marius e la sua amata, diventa il simbolo di un popolo in continua lotta. Quest’ultimo personaggio, così come l’intera narrazione di Hugo, mischia il grottesco con il sublime, alternando violenza inaudita e virtuosi passaggi di riflessione.
La vera abilità di Hugo nel mescolare i personaggi, tuttavia, sta nel fatto che, parallelamente alla lotta che imperversa nelle strade, il lettore si trova anche a vivere il dissidio interiore dei personaggi, specialmente quello di Jean Valjean, diviso tra la sua nuova vita e il suo passato da delinquente.
La grande ampiezza del romanzo è data dal fatto che racconta la storia di un popolo di vinti, i miserabili del popolo francese. È il romanzo di una redenzione personale, il romanzo di una pietà scatenata nell’animo dei lettori, di una strenua lotta contro i pregiudizi e le leggi crudeli di una società chiusa e spietata.