Massimo Limoncelli è un archeologo digitale. Dopo la laurea in Storia all’Università di Genova, nel 1999, ottiene un diploma di specializzazione in Archeologia Medievale all’Università del Salento e nel 2016 consegue un dottorato in Studi umanistici all’Università Cattolica a Milano. Dal 2010 lavora come libero professionista nel suo laboratorio di Lecce e collabora con numerose università, centri di ricerca e studi professionali italiani e stranieri nel settore della ricostruzione archeologica virtuale 2D e 3D.
«Il restauro virtuale di beni archeologici, architettonici o artistici ha come fine sia quello didattico-conoscitivo sia quello di indicare la strada da percorrere per la ricostruzione di edifici antichi» spiega. A dispetto della definizione, che suona come un ossimoro poiché “restauro” fa riferimento a una mutazione materica e “virtuale” all’assenza di materialità, si tratta di una disciplina molto concreta, che combina la formazione umanistica con la Computer Graphic e le cosiddette hard sciences, e che si è evoluta nel tempo con lo sviluppo delle tecnologie.
«Il mio mestiere è quello di ricondurre le potenzialità del digitale nei metodi del restauro reale, applicati anche al virtuale, con esiti come le ricostruzioni 2D, per la pittura, il mosaico e i documenti librari, e 3D, per l’architettura, la scultura e i reperti mobili», continua Limoncelli.
L’obiettivo è realizzare prodotti multimediali corredati da spiegazioni che illustrino i motivi di ciascuna scelta, dalla campionatura dei colori al calcolo dei volumi, dai dati sui costi di realizzazione dell’edificio a quelli sulla manodopera, attraverso un connubio fra dati informatici e dati tradizionali: per questo gli archeologi lavorano insieme agli storici e agli esperti di supporti, come, ad esempio, i papirologi.
Passare dal virtuale al reale si può, com’è accaduto con il progetto del teatro romano di Hierapolis in Frigia, oggi in Turchia, ricostruito da Limoncelli attraverso il processo di “anastilosi virtuale”, ovvero la ricostruzione degli edifici in crollo, che ha aperto il campo a una concreta ipotesi ricostruttiva. Quello dei restauratori virtuali è sempre un lavoro di équipe, sebbene Limoncelli tenga a fare una distinzione fra il modo di operare dei team italiani e dell’area mediterranea, spesso poco numerosi perché privi di finanziamenti ingenti, e le missioni guidate dagli Stati Uniti, che dispongono di più mezzi e persone perché finanziate da sponsor privati.
«Quando sono in laboratorio trascorro la maggior parte della giornata davanti al computer – racconta –, mentre in missione seguo gli orari di cantiere e la sera elaboro i dati raccolti». Limoncelli si definisce prima viaggiatore, poi archeologo, e per lavoro ha visitato la Libia, l’Egitto, la Siria, l’Iraq, la Turchia, la Grecia, l’Italia e l’Ucraina. Quando le situazioni belliche non lo impediscono, lavora direttamente sul posto; adora l’Asia e considera l’area del Mediterraneo e del Medio Oriente le più interessanti per il suo lavoro, «senza dimenticare però zone come l’Africa subsahariana, l’America e la Groenlandia, dove c’è molto da scoprire».
Sono molti i siti archeologici che ha sempre sognato di riportare in vita, almeno virtualmente, «ma in testa c’è l’Acropoli di Atene, su cui spero un giorno di aver modo di lavorare». Un altro sogno, realizzato nel 2010, è stato lavorare al sito siciliano dei templi di Selinunte, in collaborazione con l’Università di New York, ma anche ai siti archeologici di Leptis Magna, in Libia, e di Dime, vicino a Fayyum, in Egitto, da cui è appena rientrato: un progetto dell’Università del Salento diretto dai professori Paola Davoli e Mario Capasso. «Poi mi piacerebbe molto lavorare a Corinto; all’Ur dei Caldei, in Iraq; a Persepoli, in Iran; e al complesso di case di Efeso, in Turchia».