di Elena Bruzzese *
Ho scelto di frequentare il mio ultimo semestre del mio ultimo anno di corso di laurea magistrale presso l’Università di Reykjavík, in Islanda. Un’isola ai confini del mondo. Una terra che nei suoi 103 km quadrati racchiude tutto ciò che un uomo dovrebbe desiderare vivere e ammirare. Una terra immensa, travolgente ed emozionante per quei pochi che hanno, o hanno avuto, come me, la possibilità di abitarla e viverla.
L’Islanda è stata una scelta ben precisa, ponderata e motivata. Desideravo che il mio Erasmus fosse non tanto un periodo di svago e di divertimento insieme ad altri studenti internazionali, non tanto una parentesi in cui si fa festa tutte le sere. Perché questo è il messaggio che passa quando si parla di Exchange program. Volevo che il mio Erasmus fosse per me, con me, in rapporto alla natura e alle sue bellezze. Cercavo, in sostanza, la possibilità di esplorare parti di me stessa che ancora mi erano sconosciute.
Sognavo di emozionarmi per un’aurora boreale, rilassarmi immersa in una sorgente termale naturale ai piedi di un vulcano a una qualsiasi ora del giorno. Camminare per le poche strade della capitale con la neve alle ginocchia. Guidare per ore travolta dalla natura, su strade dritte che sembrano infinite, senza imbattersi in niente e nessuno, solo per il gusto di andare. Desideravo toccare quella parte di cuore che, se lo si ascolta bene, si apre alla vista di ciò che la natura ci ha regalato. Quella parte di cuore che spesso dimentichiamo di avere. E così ho scelto l’isola ai confini del mondo, quel puntino nell’oceano Atlantico tra Groenlandia e Gran Bretagna.
Ho scelto quell’isola per concludere in bellezza il mio ultimo anno di laurea magistrale in Management per l’impresa. E così sono partita dopo mesi di preparazione, burocrazia, ricerca dell’abbigliamento adatto alle basse temperature e a neve e ghiaccio, ricerche su Google che poi, puntualmente, si rivelano essere inutili e scontate.
Sono atterrata all’Aeroporto di Keflavìk e lì tutto ha avuto inizio. Quella distesa infinita del “nulla” si è fatta realtà. Piccole casette qua e là in mezzo a un “nulla” infinito. Un “nulla” così ricco di meraviglia e così infinito non si trova da nessun’altra parte, se non in Islanda, ai confini del mondo. Mi sono sentita scoperta da tutta quella struttura che mi sono creata ad hoc nei miei 25 anni di vita. Lì c’ero solo io, spogliata dai ritmi e dal chiasso di una città come Milano. C’ero io e il “nulla”.
Reykjavik è una piccola capitale che può essere paragonata a una grande città alpina. Lì, come in tutta l’isola, regna la calma e la pace. C’era solo un fattore negativo: il costo della vita. Troppo alto e talvolta limitante. Altro fattore che incede molto sul ciclo delle giornate è ovviamente il clima, non tanto le basse temperature, ma il vento, troppo veloce e gelido. La piccola Reykjavík è un qualcosa che sembra messa lì un po’ a caso, un po’ per dare modo a chi ci vive, di scappare dal quel meraviglioso “nulla”.
Quando si lascia la capitale, la civiltà finisce e si diventa un tutt’uno con la natura. E proprio questo può farti sentire perso, completamente solo e malinconico. Ma vivere l’Islanda vuol dire andare, e troppo spesso senza meta. Ciò che conta davvero in Islanda non è visitare questa o quella cittadina, bensì andare, e guardare il paesaggio mentre si va.
L’Università di Reykjavík, come la città stessa, sembra essere costruita per farti sentire al sicuro e non perso e sopraffatto tra le strade ghiacciate nei fiordi. È un immenso edificio bianco che si affaccia sull’oceano, con maestose vetrate dalle quali a gennaio ammiravo le albe delle 11:00 del mattino e i tramonti delle 15:00. L’Università era per noi studenti una seconda casa. Offriva tutto, ogni tipo di confort, dalla palestra alla sala giochi, ad aule studio all’avanguardia, da un mini supermercato a un bar stile Starbucks. I quattro corsi che ho seguito erano molto ben strutturati e altamente pratici e concreti. Ho avuto la possibilità di applicare la teoria alla pratica, grazie allo sviluppo di progetti e presentazioni in classe. I ritmi accademici erano molti veloci e stimolanti e non c’era sera in cui non arrivassi a casa stanca ma appagata.
Inoltre, il mio semestre nell’università islandese è stato facilitato dalla presenza di un personale accademico molto interessato agli studenti, sempre disposto ad ascoltare le nostre opinioni in merito a corsi e servizi offerti, e pronto a modificare e a migliorare laddove ci fossero carenze.
Ammetto di non aver scelto Reykjavík per il prestigio dell’università, che anche se poco conosciuta è estremamente valida, ma ho scelto Reykjavík in primis per vivere l’Islanda.
Forse quella sarebbe stata una delle poche possibilità per esplorare davvero quella terra, mi sono detta. Quindi, cosa poteva esserci di meglio, se non unire in una sola magnifica esperienza lo studio al viaggio? Viaggio inteso come ricerca, ricerca di luoghi, di meraviglie e di emozioni. Uscire dalla comfort zone e essere immersi in un potente “nulla” per quattro mesi è stato per me essenziale per andare a fondo dei miei bisogni e dei miei desideri più remoti. Il “nulla” spaventa, ma soprattutto da risposte. E spesso quelle risposte sono quelle che ti servono per affrontare al meglio le sfide successive. Così è stato per me. Sì, ho studiato molto e sono riuscita a terminare gli esami, e sì, ho viaggiato il più possibile con le persone stupende che ho avuto la fortuna di incontrare, ma soprattutto ho trovato risposte a domande che nemmeno sapevo di avere.
Quando sono tornata in Italia, molte delle persone a me vicine, mi ritenevano essere più pacata e serena di quanto fossi prima della partenza. Mia madre, soprattutto, era stupita dal modo con cui mi approcciavo alle situazioni. E lo ero anche io. L’Islanda è stata per me una palestra per la mente.
La vastità dei luoghi, le strade infinite, il viaggiare senza sapere dove andare perché tanto la bellezza è ovunque, i rapporti di amicizia con studenti che come me avevano scelto l’isola, e come me avevano precise motivazioni, le gite organizzate nei weekend, il vivere l’università come fosse casa, l’uscire la sera in quelle poche stradine del centro e sentirsi parte della comunità, riconoscere facce conosciute ovunque perché Reykjavík è un po’ come un piccolo paesino del Trentino dove tutti si conoscono e sono spesso imparentati.
L’Islanda è stata per me una palestra per la mente. Una terra fredda che però mi ha scaldato il cuore. Un’isola ai confini del mondo in cui però non mi sono sentita sola, perché dicevo “qui basto io e questa natura potente e travolgente”.
Come scrive Claudio Giunta, in un articolo che ho letto tante, forse troppe volte, “chi decide di andare in Islanda è già geneticamente programmato per amare l’Islanda, e nella grande maggioranza dei casi il suo amore in potenza diventerà amore in atto”.
* 25 anni, di Pisa, studentessa del secondo anno della laurea magistrale in Mangement per l’impresa, facoltà di Economia, sede di Milano