di Papa Abdoulaye Mbodj *
La mia storia inizia da Guediawaye Sahm-Notaire, una circoscrizione di Dakar, dove sono nato nel 1985. Se sono qui lo devo alla decisione di mio padre Alì di partire per l’Italia. Un atto di coraggio e speranza, perché significò abbandonare mia madre Anta e mia sorella Aisha e la realtà dove era nato, per tentare una strada priva di certezze. Arrivò nel 1988, clandestinamente, nella fredda Lombardia, a Zingonia, un paese della bergamasca. Per guadagnarsi da vivere, iniziò a vendere accendini e la sua intraprendenza lo portò nel 1989 a fondare l’associazione dei senegalesi bergamaschi, ente che si occupa principalmente di permettere ai famigliari di un connazionale deceduto il rimpatrio della salma. Nel 1989, con la sanatoria Martelli, riuscì a regolarizzarsi, e l’anno dopo ottenne il ricongiungimento con mia madre. Per motivi lavorativi, i miei genitori si trasferirono a Casalpusterlengo, nel lodigiano, e nel 1991 il ricongiungimento famigliare fu completato con l’arrivo in Italia mio e di mia sorella, evento a cui nel 1995 seguì la nascita di mio fratello Matar.
Dopo il diploma al Liceo scientifico “Cesaris” di Casalpusterlengo, decisi di provare a inseguire il sogno della mia vita: diventare avvocato a Milano. Mi iscrissi allora alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica a Piacenza. Non mancarono i sacrifici. Per pagare le tasse universitarie ho partecipato, dopo il diploma, alla campagna estiva del pomodoro. Quanto guadagnato, insieme con le borse di studio, mi ha permesso di studiare senza pesare sulla mia famiglia.
Da studente musulmano, ho vissuto costruttivamente una realtà densa di radici cristiane. Ho cercato di vivere l’esperienza accademica con sguardo aperto e in linea con le parole che avevo sentito dal professor Lorenzo Ornaghi, rettore durante i miei anni universitari: «Un’irripetibile occasione di crescita per la persona, oltre che di confronto delle varie culture presenti all’interno dell’Ateneo».
Negli anni di frequenza, ho avuto l’onore di essere rappresentante di facoltà per due mandati. Come segretario del gruppo “Voce Universitaria”, ho poi organizzato diverse attività, tra cui il derby di calcetto professori-studenti con finalità benefica. Mi sono laureato con 110 e lode nel 2009, con una tesi in diritto commerciale, discussa con il professor Andrea Perrone, sui profili giuridici del microcredito e il tema delle garanzie bancarie, coronando cinque anni indimenticabili.
Dopo la laurea, nel 2009 ho iniziato la pratica forense presso uno studio milanese, occupandomi di diritto civile e della responsabilità degli enti. Nel 2011 ho sostenuto gli scritti dell’Esame di Stato presso la Corte d’Appello di Milano. Nel 2012 ho sostenuto con successo l’orale e nel dicembre scorso ho giurato solennemente. Un momento emozionante, il coronamento di un sogno inseguito fin da piccolo, quando mi divertivo a seguire la trasmissione tv “Un giorno in pretura”.
E qui mi si è posta una domanda. Adesso che sono arrivato a raggiungere qualcosa e che mi sono integrato, cosa posso fare per il Paese da cui vengo? Secondo una ricerca appena presentata e condotta tra oltre 150mila allievi di 55 università cattoliche di tutto il mondo, 39 studenti su 100 pensano che andare all’università sia un privilegio da restituire in ritorno alla società. In Europa occidentale sono un po’ di meno a pensarla così: il 29%. Forse perché non posso dimenticare le mie radici, la domanda è cresciuta forte dentro me. E ha trovato una riposta concreta.
Si chiama “Babacar Mbaye-Awa Fall”, un progetto di cooperazione con il comune in cui sono nato, che ho promosso e dedicato ai miei nonni materni. Con l’aiuto della parrocchia “Don Bosco” di Codogno, ho fornito il materiale necessario per informatizzare l’Ufficio Stato civile del Comune. E, con l’aiuto di altri enti benefici, ho fornito attrezzature mediche all’ospedale, al fine di salvaguardare la salute infantile e migliorare le strutture sanitarie di quel contesto, come si spiega qui accanto. Sono riuscito così a restituire qualcosa alla terra da cui sono partito e a testimoniare il mio forte attaccamento alle mie radici, perché, come diceva mia nonna Awa: «Solo chi sa da dove viene, saprà dove potrà andare».