La Tubercolosi (Tb) è soprattutto una malattia dei poveri. Per la prima volta, un documento internazionale di alto livello, la End TB Strategy 2015-2035 della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), afferma che identificare le determinanti sociali della Tb è fondamentale per l’efficacia delle politiche di prevenzione, cura e controllo di questa malattia, curabile, ma di fatto letale per troppe persone.
Si riconosce la Tubercolosi non solo come un problema medico ma anche, e soprattutto, sociale. Per combatterla serve la capacità di collaborare sia fra istituzioni, sia con la società civile, soprattutto con chi agisce sul campo nell’accompagnamento delle persone malate, prendendosi realmente cura di loro nella quotidianità. Insomma, per eliminare la Tb conta l’amore, nelle micro-relazioni e nelle macro-relazioni.
È il risultato della ricerca “Love Matters in Policy Making: The Stop Tb partnering process”, finanziata dal Fetzer Institute di Kalamazoo (Michigan), condotta all’interno del Centro di ricerca di Scienze Cognitive e della Comunicazione (Cscc) dell'Università Cattolica e coordinata dal direttore del master Aseri in International Cooperation and Development Simona Beretta e da Giuliano Gargioni del Who Global Tb Programme, Technical Support Coordination, docente allo stesso master.
I risultati dello studio sulle politiche “people-centred, community-based” di lotta alla Tubercolosi sono stati presentati il 21 settembre 2016 al Kellogg Institute for International Studies della University of Notre Dame (Indiana), raccogliendo le osservazioni e le testimonianze del suo direttore Paolo Carozza, di Frank Mugabe, Program Manager Tb del Ministero della Sanità Ugandese, e di Evan Lyon, della University of Chicago, responsabile del Programma “Right to Care” della Ong “Partners in Health”. Un dialogo che ha approfondito cosa significa concretamente perseguire politiche "people-centered, community-based”, anche nella prospettiva dei Sustainable Development Goals.
In realtà, gli sviluppi recenti nella strategia globale dell’Oms per la lotta alla malattia valorizzano un approccio già sperimentato, in forma umile ma profondamente innovativa, nel lavoro delle Tb Partnership nazionali. Un lavoro che Giuliano Gargioni e il suo gruppo di lavoro hanno promosso e accompagnato nell’ultimo decennio (Who, Community involvement in tuberculosis care and prevention, Ginevra 2008).
«La Tb è una patologia che prevede un trattamento lungo (fino a 24 mesi nelle forme farmaco-resistenti) con la difficoltà di mantenere una somministrazione quotidiana dei farmaci» afferma Gargioni, che ha lavorato per anni sul campo, in Uganda, prima come medico clinico, poi come esperto dell'Organizzazione mondiale della sanità al ministero della Salute a Kampala. «Lungo è anche il tempo che spesso intercorre tra l’insorgenza dei primi sintomi, che possono facilmente essere sottovalutati, e la diagnosi. Occorreva perciò muoversi su questi due fronti: in primo luogo, assicurarci che, pur essendo lontani dai luoghi di cura, i malati non facessero passare troppo tempo tra la percezione dei primi sintomi e la decisione di recarsi all’ospedale; in secondo luogo, evitare che una volta diagnosticata la malattia le cure venissero interrotte (aspetto determinante per evitare l’insorgere di forme di Tb resistenti ai medicinali) e il paziente fosse adeguatamente sostenuto in quella che chiamiamo “aderenza” al trattamento».
Con quali risultati? «Prima di tutto, c’è stato il riconoscimento che la comunità di appartenenza (famiglie, amici, villaggio) poteva aiutare a risolvere entrambe le sfide. Occorreva poi un passo di sussidiarietà orizzontale a livello istituzionale, al fine di coinvolgere nel sistema sanitario quelle entità, quali ospedali missionari e Ong che, pur essendo private, spesso non profit, svolgono un servizio di pubblica utilità. In pratica, occorreva capire come riconoscerle e sostenerle dal punto di vista giuridico, legislativo, economico, e anche formativo. Sono passi che necessitano di tempo, di molta formazione e di molto dialogo fra le realtà locali e le istituzioni».
Che cosa rivela la ricerca su questa coinvolgimento comunitario? «Sono stati condotti tre tipi di studi: di efficacia della terapia, di accettabilità della cura e di convenienza economica. Dal primo filone è emerso come un intervento che si basa sul coinvolgimento delle realtà locali sia molto più efficace rispetto ad altri. Quanto alla accettabilità, abbiamo evinto dalle ricerche che il 98% dei pazienti preferisce una cura vicina a casa (non solo nei pochi luoghi dotati di un ospedale). Il terzo filone di ricerca, decisivo, ha mostrato come l’approccio community based alla cura porti a un risparmio pari al 50% rispetto alla cura basata soltanto sulle strutture sanitarie. Per questo il metodo comunitario è diventato una raccomandazione generalizzata nelle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità».
Un capovolgimento di prospettiva… «Il rapporto Oms sulla Tubercolosi parla chiaro: 9.6 milioni di persone affette nel 2014, di cui 3.6 milioni non arrivano neppure alla diagnosi (1/3 dei pazienti a livello mondiale). Per affrontare il problema occorre rimuovere una serie di disincentivi che ostacolano la possibilità per il paziente di rivolgersi ai servizi sanitari. Tra questi, i costi diretti (farmaci, visite) costituiscono circa il 20% delle spese reali del paziente. Ci sono poi costi indiretti (trasporto, alloggio, vitto, e soprattutto il mancato reddito, ovvero necessità di rinunciare a giornate di lavoro), che incidono rispettivamente per un altro 20% e per circa il 60% del totale, in contesti in cui la popolazione vive grazie ad un’economia di sussistenza mediante il lavoro quotidiano). Senza affrontare le dinamiche socio-economiche che rappresentano un disincentivo per i pazienti a curarsi si riscontra un fallimento anche dal punto di vista epidemiologico: il risultato medico di sradicare la Tb non si può ottenere se non con un approccio integrato di tipo socio-sanitario, coinvolgendo politica, società civile e comunità locali».
Cosa ha significato per voi lavorare su questo progetto? «Anzitutto ci siamo accorti che le parole-chiave su cui abbiamo ragionato per una lotta efficace alla Tb (responsabilità personale, solidarietà, partecipazione comunitaria e sussidiarietà) sono le colonne portanti della dottrina sociale della Chiesa. Ma sono anche le architravi della giustizia sociale. Nella mia esperienza lavorativa, prima sul campo e poi negli uffici di Ginevra, non sono partito teoricamente da questi concetti, cercando di declinarli successivamente nel lavoro in modo deduttivo. Un approccio intessuto di questi principi è risultato il più adeguato per le sfide sanitarie che ci siamo trovati ad affrontare. Partire dalla realtà: è la stessa prospettiva che porto anche quando insegno nel master in International Cooperation and Development dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali».
Per i 37 paesi coinvolti dallo studio, che hanno accesso alle risorse del Global Fund, l’approccio sussidiario è vincente per la reale efficacia delle politiche sanitarie. C’è un messaggio analogo anche per i paesi industrializzati? «Si, con l’ovvia premessa che i Paesi industrializzati fronteggiano sfide diverse, nel garantire servizi sanitari rispetto ai Paesi in via di sviluppo. Basti pensare agli schemi di protezione sociale, che nei Pvs sono rari. Questa ricerca sull’approccio people centered, community based ha comunque un riflesso anche per le nostre realtà: la cura della persona, parcellizzata e ridotta, per cosi dire, alla malattia dei suoi organi, presenta grossi limiti, inclusi quelli dovuti alla lievitazione delle spese sanitarie da ospedalizzazione. La persona non è solo il recipiente di un trattamento; è tale all’interno di un contesto di relazioni. Se si riesce a fare in modo che quelle relazioni contribuiscano alla sua cura, ne siano corresponsabili, magari con un adeguato sostegno delle cure a lungo termine a domicilio, si possono ottenere risultati più efficaci».