di Sergio Givone *
Comincio da un’osservazione piuttosto banale, ma che tale forse non è. L’osservazione banale è che per secoli la bellezza è stata pensata in termini di armonia, di riconciliazione, di consonanza, di simmetria, di proporzione. Tutti termini che sembrano contrapporsi alla crisi, se la crisi – la crisi presa sul serio – è intesa come quello “scioglimento” e quella “dissoluzione” che hanno come esito, e addirittura come inizio, il disordine e il caos. Da questo punto di vista, bellezza e crisi sembrano contrapporsi, sembrano non aver nulla a che fare.
Ma se per secoli la bellezza è stata pensata così; se è stata pensata come armonia e dunque come armonizzazione di ciò che è originariamente disarmonico o contraddittorio o comunque disordinato, insomma, se è messa in rapporto col suo contrario, evidentemente questo rapporto, che noi troppo frettolosamente tendiamo a mettere tra parentesi, invece c’è, eccome. Questo significa che bellezza e crisi – posto che la crisi sia, come effettivamente è, un momento di radicale ed effettiva rottura – non solo sono nascostamente apparentate, ma devono essere considerate insieme. Sarà pure superamento e soluzione della crisi, la bellezza. Nondimeno, senza quella crisi non ci sarebbe neppure bellezza e dunque non c’è bellezza che non porti dentro di sé la crisi da cui nasce e si sviluppa.
Soffermiamoci allora sulla intensa e rivelatrice definizione che Rilke, nelle Elegie duinesi, dà del bello: «Il bello non è niente altro che inizio del terribile». Siamo ben lontani da una concezione facile, troppo facile della bellezza, che in quanto armonia allontanerebbe ed escluderebbe da sé ciò che le si oppone e la contraddice, perché al contrario lo porta dentro di sé portandolo alla luce. Ed è soltanto in rapporto con questo cuore di tenebra che la luce della bellezza sa dire la tenebra, sa rischiarare, gettare luce, per l’appunto, sulla tenebra stessa. Perciò il bello, dice Rilke, non è niente altro che l’inizio del terribile.
Rilke nelle Elegie duinesi si riferisce a una di quelle icone della bellezza che per secoli l’hanno rappresentata in modo esemplare. Si riferisce all’Annunciazione. Dove, se non nell’Annunciazione, vedere lo splendore della bellezza? Ma quale bellezza? La bellezza che è luce del terribile, che è la potenza stessa che appunto porta il terribile al senso, lo sottrae, per così dire, al non senso e lo porta al senso. Non che ci dica in che cosa consista questo senso, ma lo fa balenare e ci obbliga a sostare presso di esso, certi che una risposta, anche se di fatto non viene, possa venire.
Lungo questa via incontriamo una delle domande più imbarazzanti che potremmo farci. La domanda è: «Può essere bello un crocifisso? Può essere bella una crocifissione?». E la risposta è: sì, se la bellezza non è quell’armonia che ignora o nasconde il fondo oscuro e apparentemente irredimibile dell’esistenza ma, al contrario, è quella luce, è quell’armonia che ce lo fa vedere, ce lo mostra e ci permette di coglierlo in una prospettiva di senso. Perché non pensare l’apparentemente impensabile, cioè che la risurrezione è bella, che la bellezza c’è anche lì, se non eminentemente lì, al livello più alto? Perché non riconoscere la bellezza là dove l’essere si affaccia sul nulla e sembra inghiottito da esso?
E gli amici metafisici mi perdonino se oso evocare questa solidarietà dell’essere con il nulla. Ma che cosa, se non la solidarietà dell’essere con il nulla, la possibilità che l’essere sia inghiottito dal nulla, si mostra nella crocifissione? Qui ci soccorre per l’appunto quella luce in grado di farlo affiorare e di farci sostare lì, interrogandoci su questo estremo paradosso.
Bella è non soltanto la Crocifissione di Velázquez, dove tutto il dolore del mondo è, per così dire, già da sempre trasfigurato e redento, ma è bella ogni Risurrezione, anche quella di Grünewald dove la sofferenza, anziché essere superata e vinta, sprigiona tutta la sua carica più mortifera, rappresentandoci in quel condannato né più né meno che un cadavere avviato alla putrefazione. Può essere bella una cosa del genere? La risposta, ancora una volta è: sì. Ma se la bellezza è la luce che proviene dalle più remote profondità dell’essere e porta alla luce ciò che lì si annida, ecco, allora bisogna andare alle radici del problema. E quali sono le radici del problema? Chi ha pensato con più radicalità il problema della bellezza? Platone.
La storia delle interpretazioni della bellezza è una storia che irradia da Platone e giunge fino a noi. È a partire da Platone che Simone Weil ha potuto dire, in chiave platonica, che la bellezza è negli occhi di chi guarda, perché la bellezza non è nella cosa, ma è cosa dell’anima.
La bellezza secondo Platone è qualcosa come un’evidenza prima, assoluta, che non ha neppure bisogno di essere definita. Quando c’è, c’è: e come non riconoscerla? Ma riconoscerla significa ridestare dal profondo della nostra anima le immagini cariche di verità che di ogni cosa del mondo dicono che cosa essa sia veramente. La bellezza è un’accensione, una primitiva, originaria, aurorale accensione dell’essere a partire dalla quale l’essere si rivela a noi altro da come era, infinitamente altro da come era e tuttavia identico a se stesso, sempre identico a se stesso.
Platone nel Simposio, il grande dialogo dedicato alla bellezza, fa riferimento al mito di Eros Protogono o Fanés. Chi è Eros Protogono? Il primo degli dèi, anzi quel Dio che è prima di Dio, perché è prima che gli dèi escano dal buio e accedano alla luce dell’essere. Eros Protogono è un’accensione, un’esplosione di luce a partire dalla quale l’essere si anima, si ravviva, si lascia riconoscere per quello che è, si rivela nello splendore della verità.
Bene, la bellezza è questo: è questa accensione di luce che ha il suo paradigma iniziale lassù dove questa esplosione è avvenuta, ma che sempre di nuovo si rinnova quaggiù. E si rinnova nell’esperienza dei mortali, i quali incontrando la bellezza ne sono sedotti e soggiogati, e come costretti a dire “sì”, sì, ti riconosco quale tu sei veramente.
In quanto anamnesi, in quanto riconoscimento di quel che la cosa è veramente, grazie alla bellezza l’uomo partecipa a quella che Platone chiama la “generazione dell’eterno”. Come si può generare l’eterno? L’eterno è l’eterno e quindi non è generato o, se è generato, non è eterno. E invece, dice Platone, l’eterno è generato nella bellezza. La bellezza altro non è che l’orizzonte in cui siamo per così dire costretti a dar testimonianza. Siamo costretti alla verità, non possiamo farne a meno. Questo è bellezza. Questo è generazione dell’eterno. Questo è il sì che la bellezza strappa dalla nostra bocca, e pronunciando il quale noi, dicendo sì alla verità, diciamo sì all’essere e concorriamo a farlo essere, a farlo risplendere.
La bellezza è cosa dell’anima, diceva dunque Platone. Ma proprio perché è cosa dell’anima, la bellezza è il momento in cui la realtà (l’essere, la vita) è rimessa nelle mani dell’uomo. E l’uomo si gioca tutto, nel momento in cui l’anima può spiccare il volo, attraversare tutte le forme dell’esperienza e raggiungere quella che è la “pianura della verità” dove le è dato di contemplare le idee alla luce del vero, o può precipitare dove tutto è oscurità e confusione.
E se le cose stanno così, se la bellezza non è questa cosa qui, questo miracolo, come può la bellezza non essere messa in rapporto con la crisi? La bellezza è l’inizio di una grande avventura dell’anima dove tutto è possibile. Dove ci si può smarrire e perdere e dove ci si può salvare.
Perciò Dostoevskij, che non era filosofo ma ben conosceva questo innesto della filosofia russa nella tradizione platonica (secondo quello che del resto era l’insegnamento di una mistica che attraverso Bisanzio faceva da ponte fra il platonismo e l’ortodossia), poteva affermare: «La bellezza è un campo di battaglia dove Dio e Satana si disputano il cuore dell’uomo». E negli stessi anni, Baudelaire si chiedeva se la bellezza venisse da una profondità celeste o dal cuore stesso dell’inferno.
E allora la domanda a questo punto potrebbe essere: che cosa è rimasto di questa tradizione? Abbiamo ancora il coraggio di farci domande come quelle che sono state poste all’interno di una tradizione che va da Platone a Marsilio Ficino e raggiunge Dostoevskij, Baudelaire, raggiunge noi, arriva alle soglie dell’attualità?
La bellezza: oggi sappiamo sempre meno che cosa sia, e forse non ne vogliamo neanche più sapere. Perché è anche vero che oggi di bellezza ce n’è perfino troppa. Dalla bellezza siamo ossessionati: solo ciò che è bello può essere, anzi, deve essere comperato, e magari bastasse questo. Solo ciò che è bello deve essere votato, solo ciò che è bello deve essere amato, solo… Ciò che non è bello non esiste, non è degno di esistere.
Ma guardiamo come funziona il mondo delle merci, il mercato. La modella che indossa un capo di grandi firme è non meno bella, spesso, della Venere di Botticelli. Ma non c’è nessuno che non veda allo stesso tempo la somiglianza e la differenza tra le due. È bella, bellissima, la modella, è bella come la Venere di Botticelli e tuttavia è tutta un’altra cosa.
E cosa c’è di differente e di somigliante nelle due? C’è che entrambe sono apparizioni, sono epifanie. Ma appare la Venere di Botticelli ed è come se apparisse il senso stesso della vita e dell’amore; appare la modella e non appare nulla, anzi, non appare che il senso del nulla. Così che noi, incapaci di vera bellezza e stanchi di falsa bellezza, cerchiamo un’altra bellezza, o forse sarebbe meglio dire: una bellezza altra. Una bellezza che non vuole neppure più essere bellezza, una bellezza che si afferma negandosi. Accade così che l’arte contemporanea, come possiamo vedere un po’ ovunque, cerchi la bellezza al di là della bellezza: in una sorta di ascesi che le permetta di ritrovare ciò che era stato suo e che a un certo punto sembrò perduto per sempre.
* Sergio Givone, laureatosi in Filosofia a Torino sotto la guida di Luigi Pareyson, ha insegnato Estetica in diversi atenei italiani, tra cui l’Università di Firenze, della quale è stato anche prorettore. Tra i suoi libri più recenti Non c’è più tempo (2008), Storia dell’estetica (2008), Il bene di vivere (2011), Metafisica della peste (2012).