È l'obbligo di non dimenticare e soprattutto di raccontare e tramandare il tema più forte che trapela dalle poesie di Primo Levi. Un'attività letteraria spesso dalla critica considerata di secondo piano nella produzione dello scrittore torinese ma che in molti versi si rivela forte e non marginale rispetto alla sua prosa. Un'attenta analisi di questi scritti è sicuramente quella offerta da Cesare Segre, uno dei protagonisti del convegno "Se questo è un uomo, narrare la resistenza al disumano" organizzato in largo Gemelli a Milano, a chiusura del quarto ciclo "Giustizia e Letteratura", avviato nel 2009 dal Centro Studi "Federico Stella" sulla Giustizia penale e la Politica criminale (Csgp), diretto dal preside della facoltà di Giurisprudenza Gabrio Forti.
Segre parte dalla critica che uno studioso come Franco Fortini rivolge alla poetica di Levi per sostenere che l'opera di Levi non sia inquadrabile nelle classiche linee «petrarchesche e leopardiane» care a Fortini, «sordo a qualunque evasione dalle linee tradizionali». Segre sottolinea però anche che lo stesso Fortini avesse individuato nelle tematiche, «nelle verità e nel timbro» i punti di forza dei versi di Primo Levi. Lo stessi Levi, sostiene il professor Segre, sapeva benissimo di non avere un'attrezzatura retorica capace di reggere in versi i temi idealistici e aneddotici a lui congeniali.
Ma basta cogliere le sue citazioni, da Lucrezio a Dante da Eliot a Valery, per capire come non fosse digiuno di poesia. Il riferimento centrale per Levi è la Shemà del Deuteronomio: «Ama il signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza. E dimorino queste parole, che ora ti comando, nel tuo cuore e inculcale ai tuoi figlioli e ragionane quando tu sarai a sedere a casa tua e quando tu camminerai per via e quando tu giacerai e quando tu ti leverai». Secondo Segre, l'obbligo che fa il Deuteronomio di pensare continuamente a Dio viene capovolto da Levi nell'obbligo di pensare all'orrore della deportazione e dell'annientamento degli ebrei. Il filologo nota nei versi di Levi un tono freddamente imperativo assai lontano dal suo più noto tono comunicativo e pacato.
L'attività poetica di Levi è intervallata da lunghe pause e complessivamente limitata. Tra le tematiche proposte oltre al valore morale della memoria, e alla condanna per chi ne rimane indifferente, torna quella della vita alienante dei campi di concentramento. «Alzarsi» mette in scena il movimento dal mondo dei disumanizzati a quello normale. «Ci troviamo nel mondo sicuro - racconta Segre - ma dobbiamo stare sempre pronti perché domani sera o fra dieci anni quest'ordine ci farà ancora saltar giù dalle brande del lager».
Anche qui torna l'obbligo di raccontare. Levi racconta come la vita dei prigionieri fosse ridotta ai bisogni fisici più elementari. «Il desiderio di raccontare - continua Segre - è qui però legato solo allusivamente al sogno. Chi ha letto i primi due romanzi di Levi sa che il bisogno di raccontare è una necessità essenziale e si contrappone all'istinto di non credere da parte di chi ascolta». Ne «Il superstite» si racconta di una notte nel lager col senso di colpa tipico dei sopravvissuti espresso rabbiosamente tra virgolette come un urlo. È il senso di colpa di chi in qualche modo è scappato e si domanda come mai gran parte dei suoi fratelli è stata annientata e solo a pochi è toccato il destino di potersi salvare. «L'almanacco - conclude Segre - chiude la raccolta dandoci la visione dell'universo con le sue leggi e i suoi normali disastri, per finire con la vera vocazione al disastro dell'uomo. Mostra che è proprio nel nostro intimo che matura il male da noi portato nel mondo».