La fotografia come sostegno psicologico per i detenuti. È l'idea di fondo di Phototherapyeurope in prison, progetto finanziato dalla Commissione europea, di cui l'Università Cattolica è uno dei partner accademici, che ha lo scopo di promuovere l'apprendimento e la consapevolezza emotiva dei carcerati attraverso l'uso della fotografia come strumento terapeutico e di rieducazione.
Il 10 aprile, nella sede di via Nirone a Milano, ha preso avvio il primo di cinque incontri didattici della durata di due mesi in cui verranno formati 50 operatori tra carcerieri, educatori e insegnanti scolastici per diffondere questo metodo nei centri di detenzione di tutta Italia. Questa fase segue un lungo periodo di sperimentazione della fototerapia che nel 2013 ha coinvolto 14 penitenziari europei. Nel caso di Milano le strutture che hanno collaborato al progetto sono state il carcere di Bollate – in specie la sezione destinata alla detenzione di sex offenders – e Icam, struttura legata al carcere di San Vittore, che accoglie detenute madri con i propri figli. Emanuela Saita, docente di Psicologia della salute, e Monica Accordini, collaboratrice di ricerca, hanno seguito tutte le fasi del progetto.
L’uso della fotografia per l’analisi clinica ha una lunga storia. Quali sono le novità del vostro progetto? Sin dalla fine dell'Ottocento diversi psichiatri facevano ritratti ai loro pazienti e mostravano loro le fotografie in modo tale che diventassero più consapevoli del loro modo di apparire agli altri. L'aspetto innovativo di questo progetto è l'approccio scientifico di ricerca che abbiamo utilizzato nell'impiego della fotografia. Abbiamo cercato di dimostrare come il suo utilizzo possa essere utile a raggiungere fini come la socializzazione e il reinserimento sociale.
Come vi siete mosse? Per prima cosa abbiamo fatto una rassegna della letteratura per conoscere le tecniche esistenti. Tra le tante ne abbiamo individuate quattro. La prima consiste nella creazione di un fotolibro attraverso la selezione di fotografia da parte dei detenuti; la seconda prevede l'utilizzo della macchina fotografica per fare ritratti ai detenuti stessi; la terza si fonda sull'utilizzo di alcune immagini stimolo; l'ultima prevede che siano i detenuti stessi a scattare fotografie sul tema della fine.
E forti di questo background avete incontrato i detenuti. Abbiamo iniziato ad applicare queste tecniche nelle due carceri nel 2013 con incontri molto frequenti. Al progetto hanno collaborato non solo psicologi, ma anche con sociologi e fotografi, in modo da rendere queste tecniche il più efficaci possibile. Ora è in corso la terza fase, che prevede cinque incontri di formazione per 50 operatori. L'ultima fase prevede la stesura di un manuale, disponibile gratuitamente in tutte le lingue dei Paesi coinvolti e contenente le linee guida per l’utilizzo delle tecniche fotografiche selezionate, oltre alla creazione di un set di photocard utili per i professionisti che lavorano in carcere.
Cosa chiedete di fare alle persone che incontrate? Vogliamo che creino un fotolibro, abbastanza simile come aspetto e formato a quelli che si fanno dopo le vacanze. I detenuti devono scegliere alcune immagini e decidere la persona a cui dedicare il loro lavoro. Il fotolibro è diviso in due parti: da un lato il passato; dall'altro il futuro, dove deve essere espresso un messaggio che il soggetto vuole lasciare a chi è destinato il lavoro. All'Icam, per esempio, quasi sempre le madri destinavano i fotolibri ai propri figli. Una volta realizzati, li abbiamo stampati e li abbiamo regalati a ognuno di loro.
E oltre al fotolibro, cosa avete fatto? Abbiamo chiesto il permesso di portare la macchina fotografica in carcere e abbiamo realizzato, assieme al detenuto, una serie di fotografie che raccontino la sua storia personale (nella foto in alto una delle detenute coinvolte). Ognuno di loro ha accordato con il fotografo gli ambienti, le pose e gli scenari adatti a rappresentare il suo percorso di vita attraverso un racconto per immagini. Poi le abbiamo stampate, in modo che potesse guardarsi, vedere riflessa la propria immagine e così connettere insieme il proprio passato, presente e futuro; la coscienza dello scorrere del tempo è molto importante in un luogo come il carcere, dove sembra che esso sia dilatato all'infinito e non passi mai.
Come hanno risposto? È interessante studiare come i soggetti hanno voluto rappresentare la propria figura nelle diverse immagini: alcune donne hanno mutato le espressioni facciali, una detenuta si è cambiata d'abito, un'altra si è truccata in modi differenti. Tutto cambia, a seconda di come la loro storia si snoda.
Siete riusciti a entrare in empatia con i detenuti? La terza tecnica adottata prevedeva l'impiego di immagini stimolo, che vengono mostrate attraverso una serie di colloqui. Anche qui l'intento è di suscitare emozioni senza ricorrere alla parola. Le immagini risvegliano una sorta di proiezione del sé in modo più libero, bypassando i propri meccanismi di difesa.
Finché la macchina fotografica è passata nelle mani dei detenuti. Abbiamo concluso il nostro progetto dando loro assoluta autonomia. Potevano usare le macchine fotografiche, durante i loro permessi di uscita. Dato che tutti coloro con cui abbiamo lavorato erano vicini al termine della pena, abbiamo domandato loro di scattare fotografie sul tema della fine, che potevano interpretare liberamente. Il rischio è che molti carcerati abbiano una visione idealizzata del mondo esterno, che inevitabilmente si scontrerà con i problemi che avranno una volta liberi.
Come hanno risposto? Permettendo loro di dare una visione concreta attraverso un'immagine, i carcerati hanno avuto la possibilità di incarnarla e di individuarne anche gli aspetti meno felici, più realistici. Non a caso, nelle fotografie è emerso spesso il tema dell'ambivalenza: per esempio il capolinea di un tram, che è insieme inizio e fine di qualcosa, esattamente come la loro uscita dal carcere.