Storicamente, l’università ha sempre svolto tre ruoli fondamentali: la creazione e la trasmissione della conoscenza (in linguaggio più burocratico, la ricerca e la didattica) e la formazione delle élites, o se si preferisce la qualificazione delle persone che sarebbero andate a occupare i ruoli più importanti all’interno della struttura sociale. Nello svolgere questi suoi compiti, essa ha mantenuto una struttura incredibilmente stabile, tanto che è meritatamente famosa l’osservazione di Clark Kerr in The Uses of University secondo cui «circa 85 istituzioni che esistevano nel 1520 esistono ancora in forma riconoscibile, con funzioni analoghe e una storia ininterrotta, tra cui la Chiesa Cattolica, il Parlamento islandese, quello dell’isola di Man e quello inglese, alcuni cantoni svizzeri e settanta università». Kerr sottolinea che la durata delle grandi università è legata alla loro capacità di restare se stesse: queste 70 università sono ancora nello stesso posto, con alcuni dei medesimi edifici, con professori e studenti che in buona parte fanno le stesse cose allo stesso modo, e – potremmo aggiungere – sono “desiderate” per questo.
Tuttavia, è lecito chiedersi se le trasformazioni che hanno investito la società negli ultimi vent’anni, con una rapidità del tutto nuova, e un’estensione sicuramente più radicale che in passato, abbiano modificato anche il ruolo dell’università. Si può, per citare l’espressione coniata da Philip Altbach, parlare di una “università nella società globale” o di “globalizzazione e università”? E si può farlo con un particolare riferimento all’Italia? Rispondere a una domanda di questo genere richiederebbe ben altri approfondimenti rispetto a quelli possibili in questa sede, ma cercherò di dare alcuni spunti di riflessione riferiti all’ambito della qualità e della responsabilità, partendo dalla considerazione che quando si parla dell’evoluzione dell’università nella società postindustriale, in realtà non di un’evoluzione si tratta, ma di una soluzione di continuità, dell’introduzione di un vero e proprio nuovo modello, in cui un elemento determinante è stata la crescita della competizione con l’introduzione di elementi di mercato per il finanziamento, il reclutamento dei docenti e l’accaparramento degli studenti, con conseguenze che sul lungo periodo sono difficili da prevedere (per esempio, l’obiettivo di produrre laureati destinati a rispondere a esigenze specifiche del mercato del lavoro, a breve estremamente positiva, rischia di produrre dei “barbari”, secondo la terminologia weberiana, la cui conoscenza è utilizzabile, specifica, certificabile e vendibile, ma non dà luogo a un’identità).
L’università prima è diventata “università di massa” e poi si è trasformata in un “sistema di istruzione superiore”, per fornire alla domanda sociale una risposta globale: è più costosa, perché più grande e più differenziata, e si diffonde una certa perplessità sul suo effettivo ruolo sociale, anche per la caduta della fiducia che in passato aveva contraddistinto le relazioni con il potere politico. In Italia, a dire il vero, il passaggio da “università” a “sistema di istruzione superiore”, composto da istituzioni diversificate, non è ancora avvenuto, ma ci sono già indizi che le istituzioni che fanno parte di un unico sistema, inizialmente differenziate, lungi dallo specializzarsi per rispondere in modo adeguato a bisogni diversi, tenderebbero a diventare sempre più omogenee, assimilandosi all’università – si pensi a quello che è accaduto per il diploma universitario –, come conseguenza del cosiddetto academic drift, cioè dell’idea che l’università tradizionale sia migliore di ogni altra forma di istruzione superiore, idea nata dal permanere di un giudizio per cui la qualità delle università, legata alla loro natura elitaria, era intrinseca, e non aveva bisogno di essere dimostrata, mentre oggi esse devono trovare legittimazione dimostrando che sono importanti, valide e socialmente utili, e non hanno solo un valore intrinseco (la ricerca della verità e lo sviluppo della conoscenza) ma producono servizi utili alla società.
La qualità dell’istruzione superiore
L’attenzione alla qualità nasce da alcune esigenze comuni ai Paesi dell’Occidente: adattare l’istruzione superiore alla nuova percezione delle relazioni economiche mondiali e alla competizione che fa crescere il rapporto fra istruzione superiore ed economia; controllare i costi crescenti dei servizi pubblici; regolare i sistemi di istruzione superiore che si sono rapidamente espansi; rendere visibile l’affidabilità dell’istruzione superiore; giudicare e premiare le buone prestazioni, e punire quelle cattive; infine, garantire a tutti coloro che ne sono interessati la qualità dei sistemi di istruzione superiore. Per questo, la valutazione della qualità non è più una semplice attività di ricerca, controllo e giudizio, ma un esercizio finalizzato a supportare decisioni, strategie ed eventuali azioni future, soprattutto per l’allocazione delle risorse.
Negli anni Ottanta si diffondono in riferimento all’università termini come performance, efficienza, accountability, outcomes, riferiti fino allora all’industria, in un quadro in cui si chiede all’università, che fino allora aveva goduto di un’elevata autonomia collegata alla fama di eccellenza, di giustificare gli investimenti, nella prospettiva della graduale introduzione di un management razionale. Il rischio di questa enfasi sulla qualità misurabile è che il desiderio legittimo di avere istituzioni affidabili si trasformi nel mito della necessità di uno “stato valutativo” che sostituisce (e non è detto che sia un bene!) lo “stato gestore”. È tuttavia innegabile che man mano che l’accento si sposta dalla regolamentazione centralizzata all’autonomia, cresce la necessità di valutare gli esiti ottenuti dalle istituzioni autonome, che divengono responsabili della qualità dell’educazione che forniscono, e non possono più pensare di vivere nell’isolamento, la proverbiale torre d’avorio, perché viene loro chiesto di rispondere a specifici problemi sociali, nell’ambito di un’autonomia che nel tempo si è strutturata in modo diversificato. Posto che in nessuna nazione lo Stato si disinteressa dell’istruzione superiore (di cui anzi resta il principale finanziatore), i modelli di rapporto fra centro e autonomia sono diversi, ma per lo più c’è accordo sul fatto che l’autonomia costituisce un prerequisito per la qualità dell’insegnamento e della ricerca.
Vi è però una serie di difficoltà nel valutare la qualità dell’università (della didattica e della ricerca), a partire dal fatto che si tratta di un concetto sfuggente e in qualche misura soggettivo, legato, più che a un prodotto o a un servizio, a una capacità “trasformativa” (degli studenti ma anche della conoscenza che passa attraverso di essa) oppure a una congruenza delle caratteristiche reali dell’istruzione universitaria con quel che ci si aspetta da lei, o ancor più genericamente alla fitness for purpose: senza soffermarci su questi temi, è evidente la difficoltà di definire in modo indiscutibile i risultati attesi e di stabilire criteri di misurabilità del prodotto, anche perché le aspettative interne, e degli attori esterni, variano tanto, che si parla dell’università come di una “istituzione ambigua” e multiscopo. Si può solo affermare che la qualità non è mai casuale, ma nasce sempre da uno sforzo consapevole in direzione di un obiettivo chiaro, o di una serie di obiettivi.
Per quanto riguarda la struttura, la complessità organizzativa degli atenei, divisi in facoltà, dipartimenti, corsi di laurea e quant’altro, rende opportuna una grande cautela, sia per la scelta dell’unità di valutazione (che non dovrebbe essere mai l’ateneo nel suo complesso, ma al massimo la facoltà, o meglio ancora il dipartimento o il corso di insegnamento), sia per l’individuazione dei valutatori, esterni all’università o espressione dell’autogoverno di una comunità di pari. Il crescente peso delle esternalità negli esiti dell’istruzione superiore (per esempio, la sua influenza sulla competitività dei sistemi economici) ha portato a una prevalenza dei sistemi basati sulla misurazione degli esiti, molto discussi e non sempre attendibili, piuttosto che sui processi o sulla gestione strategica, che dovrebbe essere finalizzata al miglioramento della qualità del prodotto (insegnamento e ricerca) e del rapporto costi/benefici, con un occhio attento alle esigenze del cliente: ed è abbastanza paradossale pensare che le league tables così popolari tra i “clienti” non nascono dalle università, che anzi le detestano, ma da giornalisti e comunicatori, e sono contrarie agli interessi dei clienti, perché mettono al primo posto le istituzioni più selettive.
Non bisogna dimenticare che il contenuto del lavoro educativo è eminentemente relazionale, e questo colloca l’istruzione superiore fra i cosiddetti experience goods, beni o servizi per cui la qualità e l’efficacia dipendono dalle caratteristiche degli utenti, oltre che dalla capacità delle istituzioni di valorizzarli. Resta il fatto che in un periodo di risorse scarse non è possibile, una volta scontate le differenze ambientali, che i costi per ottenere lo stesso risultato (per esempio, per qualificare un laureato) siano significativamente diversi per prodotti identici. Né possiamo trascurare l’aspetto della soddisfazione degli utenti (e, aggiungerei, dei docenti): non si può ignorare che viene valutato positivamente solo ciò che è causa di una esperienza personale di soddisfazione. Anche se ci sono importanti differenze di opinione tra gli accademici e gli studenti sull’importanza relativa degli elementi che influenzano la qualità, docenti e studenti sembrano concordare nel ritenere che la qualità, come sostengono L. Harvey A. Burrows e D. Green in Criteria of Quality, non si riferisce solo all’insegnamento formale, ma è relativa all’esperienza globale degli studenti. La valutazione solo istituzionale tiene poco conto di questo, con il rischio di trascurare, osserva Guy Neave, «il carattere essenzialmente umano dell’impresa educativa», e il ruolo delle motivazioni degli studenti, siano esse in termini di autorealizzazione (i cosiddetti studenti consumatori), o strumentali, proprie degli studenti investitori che hanno un progetto professionale preciso, e concepiscono gli studi universitari con questo scopo.
Precisare il concetto di responsabilità
Si è detto che l’università deve essere in grado di “rendere conto” del suo lavoro, e della sua capacità di rispondere alla domanda sociale con il miglior rapporto possibile fra costi e benefici, tenuto conto delle condizioni ambientali: è questo il concetto sintetizzato dal termine inglese di accountability, oggi largamente diffuso. Ma come si articola questa responsabilità? Scrivono G. Williams e C. Loder: «Le istituzioni di istruzione superiore sono in un certo senso responsabili verso gli studenti e le loro famiglie, verso i datori di lavoro e verso i cittadini che attraverso le tasse pagano una parte sostanziale (anche se in diminuzione) delle loro spese. C’è una responsabilità sociale e politica, che ha obiettivi come quello di assicurare che l’università sia accessibile per tutti coloro che possono usufruirne. C’è una responsabilità finanziaria, che riguarda l’uso efficiente delle risorse, e c’è infine una responsabilità qualitativa, che riguarda la capacità di raggiungere gli obiettivi fissati». Questa è una responsabilità collettiva, che non può essere lasciata ai singoli docenti, e si articola almeno verso tre diversi soggetti che possiamo considerare come “clienti” dell’istruzione superiore:
1. la società. Non si tratta solo di garantire qualcosa in cambio del finanziamento statale, che costituisce l’introito maggiore delle università: il loro scopo fondamentale è la trasmissione dell’eredità culturale, e la società deve essere garantita che assolveranno questo compito, oltre naturalmente ad avere il diritto di capire come vengono spesi i soldi dei cittadini;
2. gli studenti, che desiderano avere il miglior livello possibile di qualificazione, sia per una crescita personale sia per una spendibilità sul mercato del lavoro. Non si tratta di predeterminare dei percorsi, ma di facilitarli: per usare il paragone di un collega americano, «l’università deve funzionare come una bussola per chi fa sci alpinismo, non come uno skilift per chi fa discesa». I docenti sono responsabili della conoscenza che trasmettono, e della sua capacità di confrontarsi con le domande dell’uomo del XXI secolo, oltre che di risolvere i problemi tecnici ed economici;
3. il mercato del lavoro, che ha bisogno di poter disporre di competenze professionali adeguate, sia all’ingresso sia nel corso della vita attiva. Il legame con l’ambiente è fondamentale in tutto il sistema formativo, e consente attraverso la moltiplicazione di indirizzi coerenti e spendibili, di ridurre gli itinerari marginali e destrutturati (che qualcuno ha pittorescamente descritto “quasi non lavoro”) per chi è insufficientemente scolarizzato o ha vissuto esperienze di fallimento: nell’università, però, la relazione tra la capacità del sistema formativo di qualificare le risorse umane, successo economico regionale e sviluppo è particolarmente evidente.
Università e formazione delle élites
Della responsabilità sociale delle università faceva tradizionalmente parte l’assolvimento della funzione di riproduzione delle élites: secondo R. Cowen, il monopolio della qualità è toccato per secoli ad alcune università, che egli chiama apex institutions, polo di attrazione per i giovani migliori, che formavano sia la classe dirigente politica e religiosa, sia i nuovi accademici, diventando così breeders and feeders di se stesse. Esse producevano qualità esportando i propri docenti e ricercatori, ma anche influenzando l’intera concezione dell’istruzione in quanto «fornivano modelli di ruolo sia per le istituzioni che per i docenti, e mostravano che cosa andasse considerato “buono” sia per le università che per gli accademici». Le condizioni perché questo avvenisse erano la separatezza dal resto del sistema, l’indipendenza dal sistema politico e le piccole dimensioni, condizioni che vennero meno con l’espansione dell’istruzione.
Nel sistema italiano di istruzione “di massa”, queste apex institutions, travolte sulla carta dall’ondata egualitaristica degli anni Settanta, sono riapparse in altra forma, nelle varie classifiche stilate internazionalmente, nell’offerta di corsi in lingua straniera e master sempre più specialistici, nella presenza di docenti internazionali di prestigio. Io ritengo che sia non solo corretto, ma anche utile, conservare all’università un compito non tanto di ri-produzione, quanto di qualificazione di coloro che avranno le maggiori responsabilità nel governo del Paese e delle istituzioni – pubbliche e private – e anzi vedo nella rinuncia “politicamente corretta” a svolgere questo ruolo una delle cause del decadimento della qualità non delle università, in questo caso, ma della classe dirigente, selezionata in base a criteri che hanno ben poco di meritocratico.
A mio avviso, quest’opera di qualificazione inizia dagli insegnanti, perché è la presenza di un corpo docente di qualità che consente a un’università di esercitare un ruolo sociale diffuso: non è possibile rinnovare l’università “contro” i docenti e i ricercatori, ma solo “con” loro, in quanto, come scrivono G.C. Moodie e R. Eustace in The Evaluation of Higher Education Systems, «gli accademici non sono né i soli né i meglio equipaggiati per governare l’università: ma, e qui sta il punto, nessuno può ragionevolmente sostenere di essere più preparato di loro per discutere sui compiti fondamentali delle università e sulle condizioni necessarie per assolverli». Si può passare dalla gestione amatoriale a una gestione professionale, in presenza di uno Stato che rinuncia al controllo diretto per assumere il ruolo di supervisore, ma non rinunciare alla relazione educativa. La discussione su che cosa sia un effective teacher, già affrontata nella scuola, vale anche per l’università, e comporta una lunga serie di voci: padronanza della materia, attenzione per gli studenti, capacità di suscitare il loro interesse, chiarezza nelle spiegazioni, entusiasmo per la materia, incoraggiamento alla partecipazione, disponibilità, capacità organizzative, capacità di parlare in pubblico, capacità di stimolare lo studio personale.
Autonomia e responsabilità le sfide future
Se, da un lato, non ogni cambiamento è di per sé positivo, ma lo è solo se consente un miglioramento della qualità dell’istruzione universitaria, d’altro lato è importante sottolineare che l’ostacolo di fondo al rinnovamento del sistema è culturale, prima ancora che politico o finanziario: ancor oggi l’università è impreparata a governare i suoi processi, perché in passato la cultura accademica, negando le origini di fondo dell’università, che è funzionale alla società, anche e soprattutto svolgendo uno specifico ruolo critico, ha pensato che il governo dell’accademia fosse compito degli addetti ai lavori con un proprio linguaggio, costumi, e un atteggiamento in linea di massima dilettantesco, e questo ha portato a uno scadimento che è sotto gli occhi di tutti.
L’idea che le università siano inefficienti, però, è stata usata dai politici anche come grimaldello per assumere provvedimenti che altrimenti non sarebbero mai stati accettati, anche se di solito i tagli all’università passano facilmente perché l’educazione superiore ha bassa priorità politica. Per esempio, l’etica imprenditoriale è stata lo spunto per riordinare il settore prendendo misure impopolari per renderlo più efficiente, oppure, si è usata l’ideologia del mercato (diffusasi anche per la necessità di trovare forme di finanziamento alternative allo Stato) per promuovere il cambiamento, così come venticinque anni fa si era utilizzata l’idea di “investimento in capitale umano” per accelerare l’avvento dell’università di massa, che in realtà non portò a un cambiamento dell’università tradizionale, ma solo alla sua estensione e al suo scadimento, a danno delle fasce più deboli di utenza.
L’università contemporanea deve crescere e diversificarsi dall’interno, ma in dialogo con l’esterno, in un delicato equilibrio fra autonomia e responsabilità, che coinvolge gli studenti, che non possono essere abbandonati a se stessi in una Lego university in cui ciascuno si approvvigiona di quel che più gli piace, o che comporta meno impegno, ma non necessariamente corrisponde ai suoi bisogni profondi. Si è parlato di “strategia contrattuale” non solo con lo studente ma in genere con gli stakeholders. L’università non è più la “repubblica dei docenti”, vicina alla “repubblica dei saggi”, la cui organizzazione si basava su poche discipline, le grandi organizzazioni, i grandi enti di ricerca, le grandi imprese: le discipline tradizionali devono difendersi dall’emergere delle nuove, e il modo migliore per farlo è collegarsi al territorio per individuarne le esigenze: purtroppo in Italia questo si è tradotto in un fiorire di microatenei o di singole facoltà semiclientelari al di fuori di una logica di insieme, che valutasse i costi e l’impatto delle strategie di impianto e mantenimento.
È però necessario prestare attenzione all’eccesso di esternalizzazione: pur in un quadro di maggiore razionalità organizzativa, è centrale – e va ricostruita se è venuta meno – la comunità accademica, il meccanismo collettivo attraverso cui i membri delle facoltà controllano e fanno crescere i programmi di ricerca e la didattica. Solo in un ambiente ricco di motivazione e riferimento ai valori, l’università, oltre a dare conoscenze specifiche, potrà incoraggiare gli studenti a costruire il proprio cammino di crescita personale. Scrive T. Schuller in The Future of Higher Education: «Come creatori di conoscenza, gli accademici sono responsabili, per quanto è possibile, nei confronti della verità. Questo valorizza il ruolo critico, la sfida alle convinzioni e alle pratiche dominanti. Una delle peggiori eredità degli ultimi decenni è stata la svalutazione di questa funzione critica. Ma l’accademia può e deve essere spinta a venire incontro ai bisogni economici e sociali, ad “agire funzionalmente” in questo senso, senza abbandonare il suo dovere di criticare e sovvertire. L’altro prodotto dell’università sono gli studenti, e qui la responsabilità è quella di farli crescere. Mettere gli studenti in grado di compiere scelte autonome, di scegliere i propri valori, e di creare i mezzi per tradurli in pratica – in breve, renderli responsabili di sé – questo è il primo compito dell’università».
* ordinario di Sociologia dell’educazione presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Genova. È membro nominato nel Consiglio direttivo dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca). Si è occupata degli aspetti istituzionali della formazione, con particolare riguardo ai modelli organizzativi e al rapporto pubblico/privato, alla valutazione dei sistemi e alla professionalità degli insegnanti.