di Lorenzo Fossati *
Se decidiamo di parlare di quella cosa speciale che siamo noi, mettendo a tema quell’«uomo» che è sempre implicito o implicato in ogni discorso, ci avventuriamo in un campo forse di primo acchito sfuggente, ma decisivo per fissare gli altri. Ovviamente, una volta che abbiamo scelto di considerare l’«uomo», non abbiamo con ciò però ancora detto che esso sia importante o che tutto ruoti attorno a lui, pur avendo notato come ogni cosa di cui parliamo sia in qualche modo imperniata su noi stessi.
Ecco, l’idea con cui ci stiamo lambiccando è che questa «centralità dell’uomo» è come un retropensiero, una sorta di presupposto tacito in base al quale consideriamo tutto il resto, nient’altro che un’irriflessa astrazione rispetto al nostro fondamentale egocentrismo, quello che William Foster Wallace chiamava la nostra «configurazione di base», cioè la radicata convinzione di essere il centro assoluto dell’universo.
Il passaggio dall’egocentrismo all’antropocentrismo sembra quasi naturale e, se è così, è logico che nel corso della storia dell’umanità si sia declinato in diverse forme e differenti ambiti. In questa varietà una delle più interessanti è senz’altro l’umanesimo, tra l’altro un fenomeno tipicamente italiano nel suo cespite, che segna una vera e propria cesura tra due diversi «mondi», quello oscuro della media aetas e quello illuminato dei moderni. Anche se sappiamo che nella storia le cesure non sono mai nette e sono invece spesso ricostruite ex post, in questo caso la novità non era semplicemente il frutto di un’autopercezione, ma una categoria decisiva, essendo precisamente lo scopo che ci si prefissava.
Rischia forse di suonare un po’ troppo semplicistico liquidare la faccenda spiegando che si trattava di porre al centro non più Dio come nel medioevo ma finalmente l’uomo, di liberarsi quindi della zavorra teologica per liberare l’umanità, artefice lei e solo lei del proprio destino, anzi delle sue «magnifiche sorti e progressive». È da qui che la novità acquista un valore intrinseco, nella misura in cui è la ricerca di essa a caratterizzare l’uomo nell’universo: una ricerca di conoscenza, innanzitutto, e di liberazione, come suo portato. Di qui anche il recupero della cultura classica e del sapere degli antichi, però nuovo perché riappropriato (questo aspetto filologico e in senso ampio letterario è anzi quello più specifico dell’umanesimo in senso stretto). Di qui insomma sia la rinascita delle humanae litterae sia di quella che abbiamo imparato a chiamare la «rivoluzione scientifica», che cercherà di decrittare anche il sempre meno misterioso libro della natura.
L’umanesimo è in realtà percorso da una sottile inquietudine, come sottolinea Massimo Cacciari, ed è nell’essenza stessa di un simile progetto l’esigenza di rinnovarsi continuamente e subire periodicamente crisi e battute d’arresto, quando la ricerca del nuovo sembra trovare ostacoli da superare, o quando ci si interroga se davvero valga la pena di farlo, oppure ancora quando tale ricerca pare diventare fine a se stessa, una sorta di soggetto autonomo che ha perso di vista quell’uomo che doveva affermare come protagonista. In quest’ultimo senso, un’ampia parte della cultura novecentesca è in effetti improntata a una critica della modernità, della «sua» razionalità e della famigerata «tecnica» (tutte preludio non più all’alba di un nuovo mondo ma al tramonto dell’Occidente), e sfocia nell’appello a un ripensamento radicale, in certi casi inteso più come un’inversione di rotta che come mero assestamento.
Se allora si è avanzata più volte l’urgenza di un «nuovo» umanesimo che, purgato dai suoi limiti più o meno contingenti, riuscisse a riprenderne lo spirito vivificante, così è capitato anche di recente, chiaramente non tanto proponendo un rilancio dello studio delle humanities, quanto riferendosi al significato ampio del termine (diremmo «ideologico-programmatico»), volendo ribadire la necessità di una riconsiderazione del rapporto tra l’uomo e la struttura in cui è inserito, cioè la necessità di riaffermare il valore della persona contro gli impersonali meccanismi che ne scandiscono l’esistenza. Richiamarsi a un «umanesimo» da rilanciare (qui almeno due riferimenti importanti ed esemplificativi sono Edgar Morin e Michele Ciliberto), vuol dire insomma affermare che va nuovamente posto al centro l’uomo, sospinto ai margini se non addirittura annichilito dalle infinite possibilità offertegli dalla complessità del sistema in cui vive – possibilità che di fatto gli sembrano ormai necessità opprimenti, tali da giustificare una «rivolta» analoga a quella dell’umanesimo storico.
Va da sé che, come ogni progetto di ampio respiro, anche l’umanesimo debba essere sempre di nuovo declinato e sarebbe dunque iniquo imputargli come difetto il bisogno di una quasi continua riconfigurazione e riproposizione. Resta tuttavia sul tappeto la questione se non vi possa essere una sorta di problema di fondo, originario e ad esso quasi connaturato, che ha indotto appunto molti a un atteggiamento sofisticatamente critico se non apertamente ostile nei suoi confronti (ricordiamo il polemico professarsi «medioevale» di Agostino Gemelli): si tratterebbe del suo insistere sulla centralità dell’uomo inteso come sovrano di un mondo muto, del suo sbilanciamento a favore del microcosmo per mappare il macrocosmo, icasticamente rappresentato dall’immagine dell’uomo vitruviano, in una parola della sua tendenziale rimozione di Dio (drammatico limite diagnosticato in modo penetrante da Henri de Lubac).
Non dovrebbe essere necessario ricordare come l’umanesimo storico non sia stato sempre anticristiano (tutt’altro!), ma si è notato come le ricostruzioni siano per lo più ex post (come in effetti lo è anche la stessa costruzione dell’identità di ciascuno), per cui domandarsi se col richiamarsi all’umanismo non si rischi di perdere per strada qualcosa non sembra poi così ozioso, né lo è pensare che vi sia oggi più che mai l’urgenza di sviluppare un umanesimo «integrale», come diceva tempo fa Jacques Maritain, che sappia porre sì al centro di tutto l’uomo, ma lo faccia anche e soprattutto perché non lo considera il centro di se stesso, essendo questo centro, dell’uomo e di tutto, occupato da Dio (e così magari purgando l’antropocentrismo dalla sua matrice egocentrica e disinnescando quell’automatismo di cui si diceva). Del resto fin dalla sua prima formulazione l’idea dell’homo mensura intuita da Protagora ha avuto come contraltare la «sapienza umana» di Socrate, che rimandava alla propria finitezza e si definiva in relazione a una sapienza «altra».
L’appello all’insopprimibile dignità dell’uomo, inteso come singolarità e collettività, acquista così un significato in parte differente, che certamente permette uno sguardo lucido e spassionato sui problemi che tutti attagliano e di condividere gli sforzi alla ricerca di una soluzione, ma tenta di mettere a fuoco lo scarto che intercorre tra i «perché» ci si appassiona all’uomo, a seconda che lo si concepisca come «figlio di Dio» o «dell’Io», cioè prometeicamente di se stesso.
Dal punto di vista pratico, l’effetto dovrebbe essere la fattiva collaborazione per il progresso dell’umana famiglia e queste considerazioni tutto vorrebbero fuorché fissare un’alternativa irriducibile: le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi e di ogni tempo, come dice la Gaudium et Spes, sono le stesse, e sarebbe peggio che miope non prestare le proprie forze all’elaborazione (o rielaborazione) di un umanesimo adeguato alle inedite sfide posteci quotidianamente dalla complessità del mondo e di noi stessi.
* docente di Storia della filosofia, facoltà di Scienze della formazione, Università Cattolica, campus di Milano