Tanti ne parlano, pochi lo realizzano. Stiamo parlando del telelavoro, cioè della possibilità di svolgere, totalmente o parzialmente, l’attività lavorativa lontano dalle mura aziendali. Trasformando la propria casa in ufficio, grazie alle potenzialità delle nuove tecnologie. Un’opzione prevista, almeno sulla carta, da molti contratti aziendali. Ma che incontra, soprattutto in Italia, diversi ostacoli. Soprattutto da parte dei datori di lavoro. Come rivela il progetto di ricerca “Nuove tecnologie e benefici sociali: il telelavoro a servizio della conciliazione”, che è stato presentato il 28 gennaio in sala Negri da Oleggio nella sede di largo Gemelli a Milano.
Lo studio, condotto dal Centro studi e ricerche di Psicologia della comunicazione e condotto dal professor Carlo Galimberti (nella foto in basso), insieme a Eleonora Brivio e Francesca Cilento, mostra che il telelavoro è percepito come una buona soluzione per i problemi di conciliazione e presenta numerosi vantaggi per il lavoratore, la società e le aziende. Ma è anche oggetto di sospetti e pregiudizi, radicati in un ambiente in cui le organizzazioni devono ancora apprendere come dare fiducia ai propri lavoratori e a valutarli per performance. E la società deve dare valore alle persone che “telelavorano”.
La ricerca si muove da una premessa: la conciliazione tra famiglia e lavoro è da anni al centro di un dibattito europeo, a causa delle alte percentuali di abbandono del mercato da parte delle donne dopo la nascita del primo figlio. Un dato che si traduce in preoccupazione soprattutto al femminile. E che lo studio ha considerato nella costruzione del campione: 140 questionari compilati per l’80% da donne, 50% con figli, da 56% di dipendenti e 27% di liberi professionisti, da 63% di laureati e da 70% di persone che abitano a Milano e provincia.
Le percezioni dei rispondenti sono state indagate da tre punti di vista: quello del lavoratore, del datore di lavoro e della società. I risultati mostrano che, dal primo punto di osservazione, il telelavoro viene visto come uno strumento che permette una migliore gestione del tempo e delle attività lavorative ed extralavorative ma che potenzialmente limita la crescita professionale e il cui output viene considerato di scarsa qualità, con minore remunerazione. Eppure renderebbe la vita migliore.
Mettendosi dal punto di vista dell’azienda, gli intervistati immaginano che il lavoro a distanza richieda un’attenzione agli aspetti gestionali del lavoro e rappresenti una sfida e un problema per il controllo dell’attività del dipendente, sottratto alle classiche procedure di controllo. Anche se potrebbe portare vantaggi in termini di costi per l’organizzazione. Infine, dal punto di vista sociale, il telelavoro potrebbe offrire vantaggi per l’attuazione di politiche sociali come l’ambiente e l’integrazione femminile, ma pone sfide a organi istituzionali impreparati a gestire queste tematiche.
Risultati confermati anche dalla parte qualitativa della ricerca, che, a partire dai dati quantitativi, ha condotto dieci interviste in profondità a lavoratori, alcuni dei quali con esperienza di telelavoro da uno a 10 anni. L’indagine - dopo aver rilevato che il lavoro a distanza appare come una soluzione molto più positiva per la conciliazione rispetto ad altre misure per gestire le attività domestiche e familiari ma che fatica a decollare, nonostante alcuni buoni risultati - si chiude con alcune domande, finalizzate a prendere di petto i pregiudizi che penalizzano questa forma contrattuale: come valorizzare i telelavoratori? Come aiutare lavoratore e aziende nel passaggio al telelavoro? Quali tecnologie potrebbero renderlo sempre più praticabile? Domande che chiedono di cambiare la cultura lavorativa per fare chiarezza sul concetto di controllo del lavoratore e del suo rendimento.