Immaginate una semplice applicazione che sostituisce il giudice in un processo e decide la pena da comminare al colpevole basandosi su un algoritmo predittivo, che valuta il rischio di recidiva. O ancora, l’impossibilità di mentire davanti al magistrato perché le connessioni neurologiche dell’imputato vengono scannerizzate in modo tale da capire se dice il vero o il falso. Oppure, l’eliminazione dei limiti di velocità uguali per tutti: una vettura che può esaminare lo stato del conducente e le condizioni meteorologiche e dare un limite personalizzato, o anche studiare come ci sediamo sul sedile dell’automobile e intuire che quella sera abbiamo bevuto un po’ troppo. Le conseguenze sono presto dette: la macchina si blocca automaticamente impedendoci di guidare, e magari risparmiandoci un controllo della polizia stradale e successiva multa (o peggio).

Tutto ciò potrebbe essere realtà in un futuro - utopico o distopico - non così lontano. È quanto sostiene il libro di Jean Lassègue e Antoine Garapon Justice Digitale, presentato lo scorso 20 novembre in Università Cattolica nel corso del convegno “La giustizia ai tempi dell’algoritmo”, alla presenza di Gabriele Della Morte, docente di diritto internazionale, e di Gabrio Forti, docente di diritto penale e direttore dell’Alta Scuola "Federico Stella" sulla Giustizia penale.

Antoine Garapon, giurista e magistrato francese di fama internazionale, sostiene che il digitale sia destinato a modificare profondamente la giustizia e il diritto, mettendo però in guardia dal suo eccessivo uso. In una giustizia digitale, non ci sarebbe più bisogno delle parti che durante il processo si alternano nel dibattito, non servirebbe più l’aula dove il pubblico ministero e gli avvocati della difesa discutono del fatto di cui l’imputato è accusato. 

Eppure, il confronto è un elemento integrante e fondamentale per raggiungere una decisione finale che sia il più possibile equa e calibrata sul singolo individuo. Basare il proprio giudizio sull’algoritmo predittivo è rischioso: come ha spiegato Garapon, il giudice che si allontana dalle indicazioni dell’algoritmo sarebbe malvisto. Peraltro «se la sua intenzione è quella di far carriera vorrà farsi notare il meno possibile. Si origina dunque un comportamento da gregge, un rafforzamento delle tendenze di maggioranza». Far discendere la legge da un algoritmo predittivo significa pensare, erroneamente, che il passato possa determinare scientificamente il futuro.

Garapon ha poi auspicato che «la giustizia non venga sostituita dal digitale, ma trasformata da questo incontro». E porta un esempio: una start-up in Francia ha realizzato un programma «in grado di predire l’orientamento del giudice su un fatto. Se un avvocato vuole fare partire un contenzioso, può sapere in anticipo le percentuali di un eventuale successo: così capisce se gli conviene o no». 

Inoltre, con il digitale, tra qualche anno «i giudici - quando dovranno decidere - avranno a disposizione una quantità di dati prima inimmaginabile. Nel dibattito entrerà un livello inedito di conoscenza». Nessuna «giustizia rimpiazzata» dunque, ma una «giustizia aumentata, che determina una giustizia ripensata»: l’atto del giudicare deve restare prerogativa dell’uomo, poiché si tratta di un’azione molto più complicata della mera applicazione della legge.

Garapon ha poi concluso citando il giurista americano Daniel Katz: «Gli uomini con le macchine sono sempre più forti degli uomini senza macchine e delle macchine senza uomini». Insomma, «così come si costruiscono macchine che leggono i dati sulla salute delle persone, si costruiscano macchine che possano aiutare» - ma non sostituire - «i giudici nel loro giudizio per un maggior benessere per tutti».