di Miba Dolce *
Accoglienza perfetta, una grande famiglia ad aspettarmi, persone diverse ma armoniche. Anche se durante i primi giorni mi sentivo smarrita, principalmente per via della lingua che non conoscevo perfettamente, non mi sono mai sentita sola o fuori posto. Ma è difficile spiegare lo scorcio di Africa che ho intravisto. È impossibile descrivere le mille emozioni contrastanti che ho provato ogni singolo giorno, da quelli di adattamento agli ultimi dei saluti, probabilmente per le realtà completamente diverse con cui mi interfacciavo: le visite al carcere durante la mattina e “Nina vacances”, campo estivo per bambini, nel pomeriggio.
Nel carcere il mio compito era affiancare Marina e Francesca, ragazze del Servizio Civile Universale, e Philippe, un camerunense che lavora per il Coe in loco e si occupa dell’assistenza dei detenuti. Le civiliste, entrambe educatrici, lavoravano principalmente con i minori e tenevano due corsi, uno di alfabetizzazione e uno di rieducazione attraverso il gioco. I ragazzi, curiosi e interessati, si mostravano desiderosi di apprendere con un entusiasmo disarmante, facevano domande su domande, ci chiedevano dell’Italia e delle nostre famiglie, volevano sapere tutto e per farsi conoscere, ci facevano leggere poesie e canzoni che scrivevano.
Nei loro sorrisi, una dolcezza che faceva sembrare impossibile anche solo pensare che avessero potuto fare qualcosa di male e ci faceva dimenticare di essere in carcere. Ma, ovviamente, non era sempre così, c’erano i giorni no, giorni in cui avevano fame, giorni in cui erano stati puniti per qualcosa o erano semplicemente più stanchi e delusi, giorni in cui per iniziare la lezione si doveva cambiare approccio, invogliarli e confortarli. In quei giorni era facile ricordarsi dove eravamo, la rabbia nei loro occhi, l’atteggiamento di sfida, anche nei nostri confronti, e l’indifferenza verso la lezione erano disarmanti, tanto quanto il solito entusiasmo, e ci faceva tornare a casa un po’ sconfitte. Durante il tragitto verso casa ricordo le interminabili discussioni con le civiliste, che si chiedevano se e dove avessero sbagliato, e come rimediare e risolvere nella prossima lezione. Discussioni spesso inutili, dato che nella visita successiva i ragazzi ci accoglievano con i sorrisi di sempre ed erano pronti ad una nuova lezione, come se i problemi fossero miracolosamente risolti.
Dopo le lezioni, ad aspettarci a casa c’erano i bambini di “Nina vacances”, che arrivavano con ore di anticipo e giocavano in cortile, facendoci dimenticare ogni cosa. Nel pomeriggio infatti era questo il mio “durissimo” lavoro. Ero stata assegnata al gruppo dei Poussins, i pulcini, i più piccoli, tutti sotto i 5 anni, erano ore in cui si alternavano abbracci, coccole, pianti disperati perché non volevano stare con i genitori o perché li avevamo separati dai fratelli e dalle sorelle più grandi; ore di canti e balli, di gioco e sport, il tutto animato dagli stagisti, ragazzi con una grinta spaventosa che hanno ballato e cantato a squarciagola, per un mese, senza sosta, sempre come fosse il primo giorno.
Ricordo il mio arrivo, i primissimi momenti in Camerun, gli odori, il buio ed il silenzio della sera, durante il tragitto cercavo di figurarmi la casa, i ragazzi e come sarebbe stato quel mese, ovviamente non potevo immaginare i colori della terra e della vegetazione che inglobava la città, i rumori costanti, i canti e le voci delle persone per strada, che caratterizzano il giorno. Non sapevo che quel mese sarebbe stato troppo breve, che i giorni sarebbero passati troppo in fretta, troppo pochi per conoscere davvero una realtà, ma abbastanza per farmi capire di aver preso la giusta strada e accrescere la voglia di ripartire quanto prima.
* 25 anni, studentessa del secondo anno della laurea magistrale in Politiche per la cooperazione internazionale allo sviluppo, facoltà di Scienze politiche e sociali, campus di Milano