di Damiano Palano *
Con le elezioni del 4 marzo l’Italia è tornata ad essere un “caso”. Se anche negli ultimi venticinque anni ha in fondo sempre rappresentato una “anomalia”, le urne ci hanno infatti consegnato un quadro segnato da rotture profonde. Un quadro che è destinato a produrre nei prossimi mesi una notevole instabilità e forse a generare ripercussioni sull’intero edificio europeo. Ma di cui per ora è necessario quantomeno registrare l’impatto sugli equilibri di ciò che resta della “Seconda Repubblica”.
Il primo risultato che le urne ci restituiscono è senza dubbio la débâcle elettorale della sinistra. Non si tratta di un dato che caratterizza solo l’Italia, perché l’ultima tornata elettorale ha fatto registrare clamorose sconfitte per le formazioni che si richiamano alla tradizione socialista anche in Spagna, Francia e Germania. Se in ognuno di questi Paesi sono emerse formazioni di sinistra radicale o “populista”, in Italia le cose sono andate però molto diversamente. La proposta di Liberi e Uguali – pur sorretta da candidature di prestigio e in teoria con un forte radicamento territoriale – si è infatti limitata a replicare il modesto risultato ottenuto da Sel cinque anni fa, senza riuscire neppure a ereditare il bacino di voti che allora erano confluiti su Rivoluzione civile. Ma sul versante di sinistra il dato più eclatante è ovviamente il modesto risultato dal Partito democratico e dall’intera coalizione di centro-sinistra.
La sconfitta elettorale del partito guidato da Renzi – se certo è una conferma delle difficoltà che la sinistra incontra in Europa – deve essere probabilmente collocata all’interno anche di un’altra grande tendenza. Dagli esiti del voto emergono infatti ancora più chiaramente i segnali di un marcato sgretolamento del centro politico. Anche se le opposizioni che si collocano sulle ali estreme non possono essere interpretate come declinazioni della destra e (soprattutto) della sinistra, è evidente che lo spazio delle formazioni “moderate” e tendenzialmente “centriste” si è sensibilmente contratto. Per molti versi, il progetto originario del Pd, ossia quello di costruire un partito moderato di centro-sinistra «a vocazione maggioritaria» è naufragato, probabilmente per sempre, schiacciato sotto il peso di cinque anni di governo (oltre che di errori tattici e strategici).
Ma è uscita fortemente ridimensionata anche Forza Italia, che rappresentava in queste consultazioni la componente “moderata” del centro-destra. Inoltre, è completamente scomparsa quella fetta di spazio politico che la coalizione guidata da Mario Monti era riuscita a conquistare nel 2013, ottenendo circa il 10% dei suffragi. E nessuna delle piccole formazioni “centriste” ed europeiste (come Più Europa, Civica Popolare, Noi con l’Italia) è riuscita a superare la soglia di sbarramento.
Come è evidente, la terza macroscopica tendenza che esce dal voto è la vittoria di Movimento 5 stelle e Lega, entrambe in grado di ottenere un risultato ben superiore a quello che i sondaggi prevedevano. Alla leadership delle due formazioni andrà così riconosciuto il merito di aver saputo costruire una campagna in grado di intercettare le correnti di sfiducia e risentimento che attraversano la società italiana (e che per alcuni aspetti separano ancora una volta Nord e Sud).
Ci si può chiedere se saranno in grado di tradurre il credito che hanno ottenuto in proposte concrete. E bisognerà inoltre interrogarsi a lungo sulle cause profonde da cui deriva una richiesta di cambiamento tanto radicale. Per ora è però indispensabile prendere atto della consistenza quantitativa della rottura, della «polarizzazione» dell’elettorato italiano e della forza della spinta centrifuga della competizione. Sommando i voti di M5s, Lega, Fratelli d’Italia e dei piccoli partiti che non superano la soglia di sbarramento, risulta infatti che ben più della metà degli elettori ha sostenuto formazioni “estreme”. Formazioni che non sono propriamente «anti-sistema», ma che comunque esprimono una critica radicale nei confronti dell’Unione europea, della classe politica e dei partiti “tradizionali” (che in realtà non sono affatto “tradizionali”, dal momento che il più antico ha meno di un quarto di secolo di vita).
L’ultimo dato è infine quello dell’instabilità. L’ipotesi di una grande coalizione tra Pd e Forza Italia – il cui spettro ha dominato la campagna elettorale – è messa fuori gioco dai numeri e dalla performance deludente di entrambi i contendenti (anche se in misura differente). Il centro-destra, che pure rimane la coalizione di maggioranza relativa espressa dalle urne, non sembra poter conquistare il sostegno per dar vita un governo (se non ricorrendo ad alchimie improbabili). E il Movimento 5 Stelle, che comunque reclamerà il diritto di ottenere un incarico dal Presidente della Repubblica, appare molto lontano dal disporre di una maggioranza adeguata nelle due Camere.
In teoria si potrebbe assistere a una sorta di grande coalizione populista, perché Lega e Movimento 5 stelle avrebbero i numeri per tentare una carta simile. E non è escluso che nelle prossime settimane l’ipotesi venga almeno formulata esplicitamente. Ma rimane davvero poco credibile. Non tanto per la distanza ideologica tra i due movimenti e i due elettorati (una distanza che comunque esiste). Quanto per il paradosso che è alla base del successo di entrambe le formazioni. Sia il Movimento 5 stelle, sia la Lega sono infatti troppo forti per non essere considerati ai fini della costituzione di un governo, ma, al tempo stesso, entrambi sono troppo deboli per sostenere un esecutivo.
Per reggere il peso di un compromesso di questo genere, senza temere di perdere una larga parte dei consensi, sarebbe d’altronde necessaria un’identificazione su cui né Di Maio, né Salvini possono davvero contare (se non in termini esigui). Per i due leader usciti di fatto vincitori dal 4 marzo sarà forse più allettante la prospettiva di diventare i protagonisti di un nuovo emergente “bipolarismo”. Naturalmente è piuttosto incerto che – almeno con questa legge elettorale – un simile scenario si realizzi davvero. È invece molto più probabile che l’Italia rimanga senza guida politica per parecchi mesi e che si debba andare presto a nuove elezioni. Perché, con i rapporti di forza che si sono delineati, il “caso italiano” è destinato a rivelarsi sempre di più un vero e proprio rompicapo.
* docente di Scienza della politica, facoltà di Scienze politiche e sociali, sedi di Brescia e Milano