di Paola Ponti *
Può sembrare sorprendente, ma per accostare la “milanesità” di Guareschi, è possibile prendere le mosse dal Mondo piccolo e dal Don Camillo. Nella lettera del 27 gennaio 1949, inviata da Giovannino Guareschi al regista Antonio Blasetti, scrive:
Peccato che il Don Camillo non sia più mio: per me “Don Camillo” è come un caro amico morto al quale si può soltanto pensare con infinita nostalgia. Per favorire un ex amico che credevo un amico e non il solito “furbo romano” che parte per il Nord quando ha intenzione di fregare i “milanesi”, me lo sono lasciato soffiare per lire centocinquantamila. Ho pagato cara la lezione, ma mi servirà: anzi mi è già servita. Non ho quindi nessun risentimento con chi probabilmente oggi si vanta di aver fregato un contadino emiliano.
Oltre ad essere interessante per le vicende cinematografiche che ruotano intorno al Mondo piccolo – il furbo romano è Franco Riganti, l’amministratore della Odeon Film che si era aggiudicato, per una modica cifra, la facoltà di disporre dei diritti del Don Camillo «sine die» - questa lettera offre, a ben vedere, anche un’inedita riflessione di natura identitaria che chiama in causa il legame di Giovannino Guareschi con la città Milano e prima ancora con la sua terra d’origine.
Professionalmente, infatti, Giovannino si sente trattare come un “milanese” – anche Togliatti lo definì «”il tre volte idiota” giornalista milanese che ha inventato il personaggio dalle tre narici»; e tuttavia lo spirito che guida il suo operato di scrittore, di giornalista, di illustratore si lega immancabilmente alle radici provinciali e paesane: «Sono testardo come un contadino emiliano – continua nella lettera - (però sono un borghese e me ne vanto) e il denaro non riesce mai a disturbare il normale funzionamento del mio cervello».
Un borghese, milanese d’adozione che, tuttavia, continua a ragionare come un «contadino emiliano». Già da questi brevi passaggi, emerge in filigrana l’idea di una doppia appartenenza, o quanto meno di un radicamento non univoco che coinvolge tanto il mondo parmense da cui Guareschi proviene, quanto il milieu milanese su cui si innesta la sua esperienza professionale che, com’è noto, trova nel capoluogo lombardo un terreno fecondo di opportunità e incontri.
È lo stesso Guareschi a riconoscerlo in un importante articolo pubblicato su «Oggi» nel 1965, che compendia un po’ le sue riflessioni su Milano e il legame con il capoluogo lombardo. Guareschi morirà tre anni dopo, dunque possiamo considerarlo un po’ un testamento spirituale: «Sull’asfalto di Milano, anche le più striminzite pianticelle importate dai vivai della provincia mettono radici profonde che è difficile strappare».
O ancora, quando riconosce che il legame con Milano è profondo e immodificabile: «Anche quando nella mia casetta di Milano abiterà altra gente, la piccola soffitta rimarrà mia e non la mollerò perché la mia barca sentimentale sarà ormeggiata al grande Porto delle Nebbie. E ciò vorrà significare che, se pure porterò la targa PR, il mio cuore sarà sempre targato MI». Un po’ come nella lettera da cui siamo partiti, l’anima del contadino della bassa e quella del professionista metropolitano si presuppongano l’un l’altra e danno vita al particolare spirito di osservazione che sottende le migliori pagine narrative di Guareschi.
* docente di Letteratura italiana contemporanea, intervenuta al convegno Ritrovare Guareschi. Convegno di studi su “Mondo piccolo Don Camillo”. Pubblichiamo uno stralcio della sua relazione