Li hanno ribattezzati “rider”, i fattorini che, armati di bici, motorini o altri mezzi, consegnano cibo in giro per la città. Sono diventati l’emblema della cosiddetta Gig Economy, un settore in fortissimo aumento che, grazie a imprese divenute ormai colossi mondiali come Airbnb, Uber o alle realtà del food delivery ma anche ai call center ha aperto numerose discussioni che spaziano dalla legalità, al diritto, alla società.
Come sottolinea l’economista dell’Università degli studi di Milano Marco Leonardi, «già nel 2015 si segnala il primo intervento nella questione con l’abolizione, inclusa nel cosiddetto Jobs Act, dei contratti co.co.pro, i contratti a progetto». Tuttavia, nonostante il Governo abbia provato ad occuparsi di queste nuove forme di lavoro, la situazione è ancora in divenire, così come egli altri Paesi. Il problema dei “rider”, assurti a simbolo di queste dinamiche, riguarda infatti tutte le grandi città che, non potendo contare su un intervento nazionale o federale, adottano ciascuna soluzioni diverse e individuali.
Secondo il professor Michele Faioli dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, «ciò che servirebbe è un player europeo, se non mondiale per evitare queste interpretazioni troppo soggettive». Leonardi si concentra su quello che accade all’estero. «In Germania, per esempio, il problema è stato risolto assimilando questi lavoratori a quelli che lavorano per un salario minimo già stabilito, una soluzione però molto criticata e temporanea. In Francia, invece, dove per la prima volta al mondo c’è stato un tentativo di disciplinare il caso, non si affronta il sistema di qualificazione del lavoratore e risulta dunque un modello ibrido e da perfezionare».
I problemi cui va incontro chi decide di lavorare in queste piattaforme sono molteplici: manca anzitutto una formazione specifica, c’è una grossa difficoltà nell’accesso ai servizi al lavoro, ai centri dell’impiego e soprattutto mancano delle fondamentali protezioni sociali e un contratto collettivo nazionale. Questi lavoratori vengono talvolta identificati come autonomi, altre volte come dipendenti e hanno bisogno dunque di una regolamentazione che sia più flessibile. Per il giuslavorista Faioli, «è il diritto che deve adattarsi alla tecnologia e non viceversa. Gli impiegati in queste realtà sono spesso trattati alla stregua di cyborg che hanno a che fare con macchine sempre più intelligenti, con algoritmi che li coordinano e li controllano». Sono le nuove città 4.0, dove il lavoro si è trasformato, dove i ristoranti sono diventati semplici cucine, che sulle piattaforme vendono se stesse e la propria reputazione, allargando in questo modo le proprie reti sociali.
I rider, inoltre, sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più ampio ma ancora invisibile, come emerge dalla mappatura del lavoro digitale che sta realizzando la professoressa Ivana Pais: non solo lavori manuali (montatori di mobili Ikea, pet sitter ecc.) ma anche lavori qualificati (architetti, designer, psicologi, avvocati ecc.). Spesso, si tratta di slash worker: lavoratori che svolgono contemporaneamente più attività, con le conseguenti difficoltà di protezione sociale e rappresentanza degli interessi.
Siamo di fronte a un problema molto vasto e difficile da risolvere: non c’è un ordinamento giuridico infatti che da solo possa regolamentare la questione, anche se i primi passi avanti sono stati fatti proprio in Italia. La soluzione potrebbe essere, infatti, quella di equiparare questi lavoratori a quelli che operano per lavoro subordinato o anche somministrato, i quali, in base a direttive europee, godono di specifiche e soddisfacenti protezioni. Tra gli addetti ai lavori c’è la speranza che questa via possa essere la soluzione a una questione che deve essere risolta il più presto possibile.