Al centro degli studi universitari c’è sempre l’apprendimento ma il contesto è essenziale. I luoghi e le persone dove incontrarsi e avere uno scambio relazionale è ciò che permette non solo l’acquisizione di competenze per diventare professionisti validi domani, ma anche di crescere come persone oggi.
I mesi di lockdown e quelli che ci attenderanno nel futuro più prossimo hanno inciso e segneranno indelebilmente un cambiamento per studenti e docenti. Come si può garantire una formazione ricca, completa, integrata, a fronte di una didattica che non si può svolgere in presenza? E quali sono gli ingredienti sostanziali che la distinguono dalla formazione? Abbiamo chiesto a Emanuela Confalonieri, docente di Psicologia dell’adolescenza in Università Cattolica, di guidarci in questo percorso a partire dal chiarimento rispetto al concetto di formazione della persona, tanto caro al nostro Ateneo.
«Formare significa offrire un contesto di apprendimento dove le proposte della didattica e dei servizi agli studenti, e la modalità con cui vengono fatte, mirano non solo a far uscire dall’università persone che sanno più cose ma che abbiano acquisito anche le soft skills trasversali utili a confrontarsi con il mondo e con le situazioni che la vita metterà loro di fronte. L’ambiente in cui si impara può essere anche asettico ed essere centrato solo sull’acquisizione di conoscenze ma la formazione completa avviene in un contesto che insegni a relazionarsi con gli altri e a lavorare in gruppo, a comunicare in modo chiaro e incisivo, a sviluppare correttamente un pensiero, le capacità di decision making e di problem solving».
Che ricadute ha sullo studente un contesto di questo tipo?
«Per la persona è un circolo virtuoso. Quanto più io vivo in un ambiente che mi stimola, mi sfida e mi ingaggia, fornendomi naturalmente tutti gli strumenti per saper rispondere alla prova, tanto più costruirò un’immagine positiva di me stesso, mi scoprirò più competente e alimenterò l’autostima. Se faccio una buona esperienza formativa uscirò più sicuro della persona che sono, delle cose che so fare, sentirò una maggiore gratificazione e potrò contare sull’autoefficacia, consapevole di essere in grado di fare ciò che faccio e di sapere perché lo so fare. Questo è possibile solo imparando a riflettere sui processi di apprendimento ed è quanto noi cerchiamo di insegnare. Aggiungo che formarsi insieme agli altri è molto importante e il tempo trascorso con l’esperto che guida e dà dei feedback aiuta a capire meglio il proprio percorso».
Nel linguaggio comune si tende a utilizzare formazione e didattica come sinonimi. Perché non è corretto?
«La didattica è una parte importantissima del processo formativo. Le conoscenze sono infatti indispensabili perchè senza queste lo studente non potrà arrivare ad essere un professionista. Solo con le conoscenze, però, sarà sapiente ma non saggio, avrà appreso molte nozioni ma non le saprà usare nella relazione e nel lavoro. Quando ciò che si impara viene interiorizzato e fatto proprio, allora lo si saprà utilizzare per se stesso e per il professionista che si vuole diventare. Non è il “cosa so” ma il “cosa me ne faccio di quello che so” che fa la differenza. Ed è in ultima analisi la differenza tra il sapere, il saper fare e il saper essere. Mi piace sottolineare anche che il vero processo conoscitivo è quello che fa cambiare la persona. Si sente di aver appreso se dopo un corso di studi non si è più come prima, e questo è anche il motivo per cui alcuni esami piacciono più di altri, perché alcuni temi toccano la persona nel profondo e contribuiscono alla sua crescita. Gli psicologi parlano di “fatica e frustrazione dell’apprendimento” e qualcuno addirittura di “dolore dell’apprendimento” perché si tratta di un’esperienza umana e vera».
Tra presenza e distanza in questi mesi la didattica è stata messa a dura prova. Ne ha risentito anche la formazione?
«È la relazione didattica educativa a fare la differenza. Quanto più l’insegnante è capace di coinvolgere tanto più l’esperienza diventa formativa. Noi apprendiamo tutto due volte, la prima grazie all’insegnamento di qualcuno, la seconda da soli quando interiorizziamo il messaggio ricevuto. E il primo passaggio è fondamentale perché passa attraverso la relazione, l’ascolto dello studente, della sua esperienza, della sua percezione. In presenza può essere più semplice ma il vero valore aggiunto è mettere al centro l’apprendimento dello studente e non l’insegnamento del docente. Se l’ottica è quella del servizio allo studente, l’insegnamento lascerà una traccia e si avvarrà di soluzioni di volta in volta nuove, adattate al contesto e alle persone coinvolte, di lezioni tout court ma anche di dialogo, interazione, richiesta di elaborati e approfondimenti da parte dei ragazzi che poi verranno discussi insieme. Quando c’è questa volontà la didattica a distanza non solo non cambia il risultato, ma può essere un supporto. Viceversa, una lezione asettica in presenza traslata in modalità sincrona nel virtuale sortirà lo stesso effetto».