Una foto che cattura, che porta all’interno di una narrazione alternativa di tragedia, che ci sfida a ritrovare la nostra umanità. È il percorso che l’immagine dei corpi del papà e della bambina annegati e adagiati sulla sponda del Rio Grande sollecita secondo il professor Fausto Colombo, docente di Teoria della comunicazione e dei media alla facoltà di Scienze politiche e sociali e direttore del Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo, autore del libro Imago pietatis. Indagine su fotografia e compassione (Vita e Pensiero), ispirato dalla fotografia di Alan Kurdi, il piccolo profugo siriano morto in mare e raccolto da un poliziotto sul litorale della Turchia.
Come l’immagine di Alan, anche quella scattata dalla giornalista Julia Le Duc e pubblicata dal quotidiano messicano La Jornada ha provocato molti commenti e molte reazioni di difesa. «Sul profilo di Claudio Marchisio che ha postato la foto, uno dei commenti diceva: “Si vede che è finto, che è un bambolotto”» afferma il professor Colombo. «Una reazione che, paradossalmente a contrario, spiega la forza di quell’immagine. C’è qualcosa di pittorico nella rappresentazione dei corpi morti e questo accade perché questo tipo di fotografia, soprattutto delle vittime-bambini ha - lo dico con la morte del cuore - una sua estetica. Perciò questa foto ci cattura e richiama la nostra attenzione, sbalza dalle mille foto inutili che vediamo tutti i giorni».
Ma la foto ci spinge anche oltre… «Ci racconta una tragedia che non è nella fotografia ma è nella storia umana che ha portato a quell’esito e che la fotocamera ha ripreso. Si tratta sempre di storie di persone che scappano dalla violenza, di persone che non possono scegliere se stare o andare. In ciò sta la forza di queste foto che contraddicono la retorica dominante».
In effetti basta frequentare i social o ascoltare le domande degli ascoltatori alla radio per capire il pensiero dominante. Da dove nasce la giustificazione dei respingimenti delle navi che traggono in salvo i migranti? «C’è un unico modo: aderire a una narrazione che parla di invasione e sostituzione ma, soprattutto, che rimuove le vittime, mettendo al centro i trafficanti di uomini e dopo inserendo tra questi anche le Ong. La narrazione dice: dobbiamo stroncare il traffico di uomini e mette da parte le vittime, le persone che devono scappare da dove stanno. Queste foto invece ci raccontano, condensata, un’altra narrazione che rompe il dominio di quella dominante e fa dire, come sostiene Papa Francesco, che il migrante è la figura tragica dei nostri giorni».
Cos’ha di specifico la foto del papà e della bambina? «In fondo a questo abisso, così come nella foto di Alan c’era il poliziotto che prendeva in braccio il bambino, ricordando una pietà, c’è il gesto infinitamente umano del padre che si porta la bambina nella sua maglia e della bimba che lo abbraccia. Questo estremo gesto - che è il più umano che noi possiamo immaginare perché anche se non tutti siamo padri, tutti siamo figli - è paradossalmente il riscatto della vittima, il segnale di una umanità profonda che dobbiamo riacciuffare, facendo questo percorso. Se no è soltanto un dolore, è l’ennesima morte inutile. Se percorriamo questa strada di dolore, alla fine troviamo il gesto che ci fa riscoprire la nostra umanità».
Che rapporto c’è tra questa foto e quella di Alan? «C’è una somiglianza di superficie che è il bambino-vittima, un corpo abbandonato in modo non osceno, che mantiene una propria compostezza nella morte, e l’appartenenza a una stessa grande storia, quella dei migranti. I migranti sono dovunque e il fenomeno dell’immigrazione è un fenomeno vastissimo, che dura dalla fine dell’800. Poi ci sono delle grandi questioni di fondo, il discorso umanitario, quella che qualcuno chiama l’ideologia umanitaria: l’idea che ci siano dei diritti profondi dell’uomo in quanto uomo, non in quanto cittadino. Il bambino-vittima è la rappresentazione tridimensionale della violazione di questi diritti».
Che spazio ha la compassione nello spazio dei social, spesso abitato dall’odio? «Rispondendo a un’intervista sul libro “Imago pietatis” ho detto che la compassione salverà il mondo anche se il mondo non vuole. Credo che la compassione evochi la capacità di sentirsi nella pelle degli altri e di sentire l’altro nella nostra pelle. Questo fa parte del nostro essere umani. Se perdiamo la compassione abbiamo perso la nostra umanità. Sono convinto che la maggior parte di quelli che fanno discorsi d’odio riescono a farli in quello spazio virtuale profondamente inquinato che sono i social (non tutti, non sempre) solo perché lì l’altro non c’è. Credo che se quelli che scrivono “mandiamoli a casa loro” fossero sulla SeaWatch tirerebbero a bordo i migranti. Nel mare è così, come erano le montagne prima della Prima guerra mondiale: un unico grande universo di persone che si assomigliano. Il mare è un luogo dove la compassione è una forma di condivisione dell’essere umano».
Riusciranno immagini come queste a far passare dalla rimozione del tema e una gestione su scala internazionale delle migrazioni? «Nel mio libro parlo di Marc Gasol, il campione NBA di basket che si è imbarcato sulla Sea Watch e ha detto: “Quando ho visto la foto di Allan ho capito che non potevo fare altrimenti”. Credo che immagini come queste hanno il potere di riattivare qualcosa se noi accettiamo di viverle fino in fondo. Il che è un processo personale. Il post di Claudio Marchisio è un commento quasi introspettivo, di uno che accetta di dire: cosa possiamo fare? Nei pochi commenti negativi al suo tweet o nei commenti medi al tema dell’immigrazione si scopre che non c’è nessun processo riflessivo. È un discorso di etichetta: noi – gli altri. Definire noi in Europa o in Nord America come persone a rischio è paradossale e tragico a fronte di queste persone che muoiono».
In alto la foto di Julia Le Duc pubblicata dal quotidiano messicano La Jornada