di Francesco Tedeschi *
Uno dei passaggi più tragici del lutto è il venir meno di una voce familiare.
Con la morte di Leonard Cohen, il cantautore canadese nato a Montreal nel 1934 da famiglia fortemente radicata nella cultura e tradizione ebraica, si spegne una delle voci più espressive, emozionanti e taglienti della nostra epoca. Il suo timbro, già maturo quando nel 1967, trentaduenne, pubblicò il suo primo album di canzoni (The Songs of Leonard Cohen, Columbia Records, 1967), è divenuto nel corso degli anni sempre più profondo, suadente e oracolare, fino a toccare le corde di un dialogo intimo con il trascendente, nel congedo alla vita affidato alle note del suo ultimo disco, You Want It Darker (Columbia Records, ottobre 2016), supremo momento di congiunzione con una visione travalicante la dimensione umana.
Non si può certo ridurre la presenza di Cohen alla sua voce, perché nella sua storia e nella sua vasta produzione di scrittore e poeta parrebbe che quasi occasionalmente i suoi testi poetici hanno trovato forma in canzoni. Eppure proprio in queste essi assumono quel tono di messaggio compiuto e definitivo, soprattutto nel primo periodo della sua attività di cantautore, grazie al suo modo di usare le parole come pietre, mai casuali, chiare pur essendo ricche di sfumature. La sua voce, come uno strumento inconfondibile, che ha usato in funzione melodica e narrativa, aveva la capacità di accarezzare e di rimanere astratta, impalpabile, talmente profonda da essere traccia di un’origine remota. Con essa Cohen ha lasciato un segno indelebile nella storia della canzone d’autore, e i suoi brani, a cominciare da quelli più sofferti e sentiti, quasi confessioni, diventavano materia di condivisione di una nostalgia che tutto pervade. Le sue canzoni sono nello stesso tempo racconti di frammenti di vita e immagini che si depositano sulla superficie di una giornata autunnale, rivelando quello che si muove sotto le loro apparenze, le loro risonanze, il loro essere momenti dell’eterno. Soprattutto, questo vale per i testi e le creazioni della sua prima stagione, composte tra gli anni Sessanta e Settanta, quando Cohen è stato una delle voci più introspettive e melanconiche di un tempo non rivolto solo a utopie giovanilistiche.
Vi è poi una seconda stagione, in cui altre note vanno a trascendere il contingente, dal canto di quel sommesso Hallelujah, che è una delle canzoni più ispirate del suo repertorio, capace di affascinare e di provocare alcune centinaia di interpretazioni diverse da parte di tanti musicisti e cantanti che a lui si sono abbeverati (da noi De André e De Gregori, su tutti), a quei segnali di ulteriore maturità che sono gli album I’m Your Man (Columbia Records, 1988) e The Future (Columbia Records, 1992). Sembravano gli atti conclusivi della carriera di un artista che voleva essere così ricordato, come appariva nei suoi recital di quel periodo, come l’interprete di un’epoca che aveva voluto portare lo sguardo oltre di essa, per poi, forse, ritrarsene.
Poi, dopo alcuni anni trascorsi in un monastero buddista in California, il ritorno, autore ormai anziano e saggio, che si confronta con se stesso e con il mondo, perché ha ancora voglia e necessità di dire, con toni più rilassati. Ne derivano alcuni album, cinque nel nuovo millennio, prima dell’ultimo, come se da quella fase di silenzio fossero emerse nuove ragioni per raccontare, ricordare, disegnare ritratti, esprimere il canto profondo dell’anima.
Per cinque anni, fra il 2008 e il 2013, numerosi concerti, dove quasi non ci sarebbe stato bisogno d’altro che della sua voce, mentre lui, accompagnato da cori femminili più vicini allo spiritual che al soul e da arrangiamenti musicali più elaborati, ma sempre scarni, riusciva ancora e forse sempre più a incantare, con l’eleganza e la dignità di sempre, con il cappello calato in testa e addirittura con il bastone, come non ha avuto timore di farsi fotografare negli ultimi tempi. La sua voce allora coincideva con la scena, nella profondità baritonale di chi ha tanto fumato, parlato, ascoltato, scritto, fatto silenzio in sé e attorno a sé. Emozionante, come poche altre.
La sua biografia e la sua storia intima, ampiamente raccontate nel lungo articolo che David Remnick gli ha dedicato sul “New Yorker”, si è andata arricchendo di episodi che mostrano la profondità della sua personalità e la genuinità della ricerca interiore, che ha caratterizzato il suo modo di avanzare negli anni, nell’arte, nelle canzoni, fino alla fine. Il saluto commovente alla sua compagna di un tempo, Marianne, che lo ha preceduto di circa tre mesi, è materia pubblica, e dice molto del modo in cui la vita è stata affrontata da Leonard Cohen.
In realtà ogni canzone di Cohen suona come un addio, un congedo, e questo ha spinto, già negli anni Sessanta, qualcuno a dire che le sue canzoni avevano un che di “vecchio” o di “anziano”. Nel congedo è da leggersi piuttosto la compiutezza: ogni sua canzone era già esperienza di un passato che viveva e vive come frammento di memoria.
Ogni sua canzone però è anche una preghiera, un confrontarsi intimo e profondo con gli spazi immensi della vita e della morte, delle ragioni dell’agire, dello sperare e del lottare, che nell’intimo della coscienza trovano il luogo di manifestazione, aprendosi al confronto con Dio, il Dio della tradizione ebraico-cristiana al quale si appella nell’ultimo suo canto, nel buio della più profonda e compiuta consapevolezza di essere giunto al termine della sua vita.
* docente di Storia dell’arte contemporanea nella facoltà di Lettere e filosofia dell'Università Cattolica