di Dario Antiseri *
Max Weber, in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, era ben consapevole del fatto che è «pazzamente dottrinaria» la tesi stando alla quale «“lo spirito capitalistico” [...] sia potuto sorgere solo come emanazione di determinate influenze della Riforma o che addirittura il capitalismo come sistema economico sia un prodotto della Riforma. Già il fatto che alcune importanti forme di aziende capitalistiche sono notoriamente assai più antiche della Riforma si oppone una volta per sempre a una tale opinione». E quel che a lui stava a cuore era di «portare in chiaro soltanto se e in quale misura influenze religiose abbiano avuto parte nella formazione qualitativa e nella espansione quantitativa di quello “spirito” nel mondo e quali lati concreti della civiltà che posa su basi capitalistiche derivino da tali influenze».
Pur tuttavia, per decenni e decenni, la tesi di Weber, interpretata quasi come un dogma inattaccabile, ha spinto nell’ombra della dimenticanza, o, in ogni caso, nel regno dell’irrilevanza, quei contributi che qua e là avevano posto l’attenzione sui rapporti tra cattolicesimo e capitalismo. Difatti, «le tesi del Weber esercitarono un’influenza grandissima sulla concezione generale del problema. In molti testi di storia, storia delle religioni e sociologia sono state presentate come verità evidenti e indiscutibili, con una trattazione più o meno estesa e spesso senza che fosse citato il nome del Weber [...]»: questo scrive Kurt Samuelsson in Economia e religione. E aggiunge che queste tesi «sono penetrate [nelle scienze sociali] come una “merce” da accettarsi senza un’ulteriore indagine, come verità evidenti di per se stesse che non richiedono né conferma né approfondimento». E davvero non pochi sono gli autori che si sono assestati su di un simile convincimento. Certo, si dà anche il caso che la proposta di Weber sia stata in vario modo contestata, e tuttavia – fa ancora presente Samuelsson – «anche gli scrittori i quali hanno criticato punto per punto le tesi di Weber sono stati, in ultima analisi, disposti a trovarle ragionevoli, in maniera variabile».
Mentre è ormai da tempo ben noto il contributo dato dalla Tardo-Scolastica spagnola alla storia delle dottrine economiche e politiche, fino a non molto tempo fa, invece, sono stati trascurati gli itinerari aperti dalla Scuola francescana. Così, per esempio, sull’idea di produttività del capitale monetario – tema indubbiamente centrale della teoria economica – Joseph Schumpeter scrive in Storia dell’analisi economica: «Già prima adombrata, essa fu per la prima volta espressa da sant’Antonino, il quale spiega che, sebbene il danaro circolante possa essere sterile, il capitale monetario non lo è, perché esso rappresenta una condizione necessaria per intraprendere affari». Ora, è ben vero che il domenicano arcivescovo fiorentino sant’Antonino (1389-1459) accoglie nella sua Summa l’idea della funzione del prestito di danaro sia per i consumi sia per gli investimenti vantaggiosi, richiamandosi all’autorevole proposta di san Bernardino da Siena (1380-1440); solo però che costui, da parte sua, ripeteva le idee di due francescani: Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298) e Alessandro di Alessandria (1270-1314).
L’analisi economica di Pietro di Giovanni Olivi è contenuta nell’opera ormai conosciuta come Tractatus de emptione et venditione, de contractibus usurariis et restitutionibus. Ebbene, uno dei problemi di fondo affrontati da frate Pietro fu il seguente: di fronte alla proibizione canonica dell’usura, è lecito distinguere fra il prestito di una somma di danaro qualsiasi e il prestito di una somma di danaro inscritto o da inscriversi nel processo produttivo, cioè impiegato in un programmato o già realizzato investimento produttivo? Ed ecco la risposta: «Ciò che con ferma decisione (firmo proposito) è destinato a qualche probabile lucro, non solo ha il significato di semplice danaro o di qualsiasi merce, ma possiede anche in sé un qualche seme di lucro, che comunemente chiamiamo capitale. Perciò esso non solo deve rendere il suo stesso valore, ma anche un valore aggiunto (sed et valor superadiunctus)». Commenta Oreste Bazzichi nel suo Alle radici del capitalismo. Medioevo e scienza economica (2003): «Mentre ogni incremento di danaro preteso in forza del mutuo, vi mutui, non poteva configurarsi altro che come usura, la ricompensa, invece, che il mercante, o chiunque altro avesse avuto progetti di investimento economico realisticamente fruttifero, pretendeva per distrarre il proprio danaro dagli affari e consegnarlo in prestito, veniva piuttosto considerata come un risarcimento del danno subito. E tale danno, nelle sue componenti di lucro cessante e di danno emergente, si esprimeva con la parola interesse, derivata, nello stesso significato, dal diritto romano». Dunque, perché una somma di denaro possa venire qualificata come capitale è necessario che essa sia destinata a un processo produttivo e che questa destinazione sia l’esito di un fermo proposito del proprietario.
Veniamo al secondo grande contributo dell’Olivi alla teoria economica. È nella prima quaestio del Tractatus de emptione et venditione che egli tratta del valore economico. Il valore di una cosa, egli afferma, nasce dalla concorrenza di tre cause: quelle proprietà che la rendono adatta meglio di un’altra a soddisfare i nostri bisogni; la scarsità e quindi la difficoltà a essere reperita; la preferenza individuale di coloro che intendono usarla. Nella terminologia di san Bernardino da Siena, nella trascrizione che egli fa dei passi dell’Olivi, il valore di una cosa è data dalla raritas, dalla virtuositase dalla complacibilitas. La raritas sta a significare la scarsità del bene economico rispetto alla domanda; la virtuositas è la sua capacità oggettiva di rispondere a un bisogno; e la complacibilitas è la preferenza che un soggetto dà a un bene in vista dell’appagamento di un bisogno piuttosto che di un altro, stabilendo una gradualità tra questi. Con la complacibilitas l’Olivi introduce nella concezione del valore un elemento che risulterà poi nevralgico per il marginalismo e la successiva e contemporanea teoria economica. In sintesi, annota ancora il Bazzichi, «il valore economico si determina in funzione dell’utilità – sia nella sua forma oggettiva (virtuositas) sia nella sua forma soggettiva (complacibilitas) – e in funzione della rarità». E precisa: «È questa veramente la migliore e la più moderna tra le teorie del valore del Medioevo […]. Contatto con la gente, presa di coscienza della realtà sociale, ricerca e analisi delle problematiche nuove emergenti dalla società e la loro soluzione sul piano pratico nell’insegnamento della teologia morale, nella predicazione e nella confessione: questi, in sintesi, i motivi [...] che danno un contributo nuovo alla comprensione della risposta storica sul perché i francescani, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, siano stati pressoché gli unici a elaborare, sul piano dottrinale, una teologia economica e, conseguentemente, a esercitare nella prassi un’influenza positiva per il superamento delle difficoltà giuridico-morali come l’interesse e la produttività del denaro. E ciò acquista ancor più valore se si considera che nello stesso periodo l’azione esercitata dalla Chiesa sull’attività economica attraverso le corporazioni andava in senso contrario».
Ebbene, la riflessione economica francescana diventa realtà concreta nei Monti di pietà e nei Monti frumentari, dove la differenza tra le due istituzioni sta nel fatto che i Monti di pietà servivano a calmierare il costo del denaro a vantaggio delle forze lavoro, mentre con i Monti frumentari si intese calmierare il prezzo del grano, a favore della parte povera della classe degli agricoltori: venivano prestate derrate di cereali per la semina, che, a raccolto avvenuto, venivano restituite alle condizioni stabilite, in sostanza a seconda del rendimento dell’annata.
Attenti agli aspetti concreti dell’evangelizzazione, i francescani si erano resi conto dell’impossibilità per le famiglie meno abbienti di avere accesso al credito a un equo tasso di interesse ed erano testimoni del dramma di tante famiglie precipitate in miseria perché strangolate da usurai – ebrei e cristiani – senza scrupoli. Sta proprio qui, appunto, la ragione principale della creazione dei Monti di pietà: istituzioni concepite come mezzo di “cura” della povertà, di lotta all’usura.
Fu frate Barnaba Manassei da Terni a fondare a Perugia il 13 aprile del 1462 il primo Monte di pietà. Frate Barnaba, tra il 1460 e il 1462, insieme a frate Michele Carcano da Milano, aveva predicato a Perugia contro l’“usura”, e «riuscì a convincere gli amministratori della città a dar vita a un banco di prestito su pegno, che usasse il tasso di interesse unicamente per conservare il cumulo di denaro necessario a mantenere il flusso dei prestiti. L’istituzione si formò con i proventi di donazioni e di elemosine [...]. Faceva prestiti a mercanti e artigiani ed escludeva prestiti per spese di lusso. Il tasso di interesse non superava il 6%», ci spiega Bazzichi in Il paradosso francescano tra povertà e società di mercato. Dai Monti di Pietà alle nuove frontiere etico-sociali del mercato (2011).
Subito dopo quello di Perugia, l’istituzione dei Monti di pietà si diffuse in Umbria e nelle Marche, per estendersi successivamente soprattutto nell’Italia del Nord. Nel 1463 il Monte di pietà fu fondato a Orvieto e a Gubbio; nel 1464 a Pesaro e l’anno dopo, nel 1465, a Foligno; nel 1466 a Norcia, a L’Aquila e Borgo San Sepolcro; nel 1467 a Terni; e il 14 giugno del 1468 ad Assisi. Lì, a dare man forte al Monte di pietà fu fra Giacomo della Marca, il quale dimorò nell’eremo delle Carceri tra il 1468 e il 1471. Nell’estate del 1485 arrivò ad Assisi fra Bernardino da Feltre, il cui impegno di predicatore si profuse nella difesa dei Monti di pietà; pochi mesi prima, nel 1484, aveva fondato il suo primo Monte a Mantova. Monti di pietà sorsero nel 1469 a Spoleto e a Trevi, nel 1471 a Viterbo, nel 1473 a Bologna, nel 1483 a Milano e Genova, nel 1484 a Brescia e Ferrara, nel 1486 a Vicenza. In un secolo, dal 1462 al 1562, si contarono 214 Monti di pietà.
Con l’istituzione dei Monti di pietà, i francescani si immersero nella concretezza della vita quotidiana della gente. Scrive il Bazzichi in Alle radici del capitalismo: «L’osservanza, insomma, si sporcò le mani nella storia (perché questa immersione non è immune da rischi e inconvenienti) tra mille ostacoli e nemici (dagli umanisti laici ai religiosi concorrenti), ma lasciò un segno indelebile nel tessuto politico e sociale del tardo Medioevo, contribuendo non poco allo sviluppo economico, sociale e politico».
Fra Barnaba fondò, dunque, il primo Monte di pietà a Perugia nel 1462. Questo Monte è sopravvissuto sino al 1972, quando è confluito nella Cassa di Risparmio. Ancora nel 1861 ben 39 erano, nel circondario di Perugia, i Monti frumentari – che nel Novecento confluirono nelle Casse Rurali. Istituzioni, dunque, dalla lunga durata perché profondamente radicate in necessità della vita economica e sociale.
C’è stato chi, studiando certi statuti dei Monti di pietà, è giunto a dire che non poche idee in essi contenute le ritroviamo, per esempio, in pagine di Amartya Sen. E di fronte a queste “banche etiche” francescane viene spontaneo chiedersi: i banchieri odierni non hanno proprio nulla da imparare da quei francescani che han dato vita ai Monti di pietà e ai Monti frumentari?
Aspra è stata la discussione tra teologi, moralisti, giuristi di varie università dell’epoca sul problema dell’interesse sul prestito. I teologi e moralisti domenicani e agostiniani erano contro ogni forma di interesse e addirittura anche contro il semplice rimborso spese. E pure tra i francescani l’argomento dell’interesse sul prestito fu oggetto di contese, come dimostrano gli scontri che si ebbero nel Capitolo generale dell’Osservanza di Firenze del 1493. E nel Capitolo generale che ebbe luogo a Milano il 13 luglio 1498 si stabilì che non venissero eretti Monti di pietà senza la prescrizione di ricevere un tasso di interesse, seppur minimo. L’esperienza aveva già dimostrato, con il fallimento del Monte di pietà di Firenze, che i Monti non avrebbero affatto potuto sopravvivere senza la richiesta di un pur minimo interesse sul prestito. Ebbene, dinanzi a simili dispute e a questa attenzione portata sull’uso del denaro “pubblico”, non c’è forse da restare esterrefatti di fronte ai privilegi dei politici e agli attuali immotivati e stratosferici stipendi di manager di istituzioni pubbliche? Il privilegio fa parte della logica della corte, è la negazione del merito, un pericolo per la democrazia. Certo, la libertà viene prima dell’uguaglianza: in una società aperta, disuguaglianze e iniquità potranno senz’altro venir attenuate e magari rese sopportabili, mentre questo non potrà accadere in una società chiusa, dove le disuguaglianze cresceranno diventando inattaccabili. E, in ogni caso, privilegi acquisiti e privilegi reclamati o richiesti sono il sintomo del marciume morale di una politica trasformata in greppia, dove si affollano servi in livrea e “clarinetti” ben remunerati – veri Dracula mascherati da “servitori dello Stato”.
Dracula: le favole sono vere, diceva Italo Calvino. Pensioni mensili che ammontano a decine e decine di milioni di vecchie lire; stipendi che ammontano a centinaia e centinaia e centinaia di milioni di vecchie lire; liquidazioni che ammontano a dieci, dodici miliardi di vecchie lire... Sono la vergogna di una politica marcia. Sono realtà da sradicare e non perché siamo comunisti, ma semplicemente perché siamo liberali: merito e non privilegi. Un Paese infestato da feudatari, vassalli, valvassini e valvassori, da turiferari, mezzani e “poeti di corte” è un Paese dove i cittadini sono indotti a trasformarsi in accattoni ricattatori e ricattabili che per mestiere fanno gli elettori.
* già professore ordinario di Metodologia delle scienze sociali, è fra i massimi specialisti del moderno pensiero liberale angloamericano e austriaco, e autore, oltre che di numerosi volumi e articoli, di una grande Storia della Filosofia (con G. Reale), più volte riedita e tradotta