Nel gioco degli scacchi, si definisce “finale di partita” la terza e ultima parte dell'incontro che segue l’apertura e il mediogioco. Non tutte le partite a scacchi si chiudono, però, con il finale di partita: se tra la bravura dei due giocatori vi è una grande differenza, spesso il migliore riesce a battere l'avversario già nel mediogioco, quando non addirittura nella fase di apertura; quando invece i due sfidanti sono entrambi esperti, solitamente l'incontro si protrae a lungo e si giunge dunque al finale di partita, una fase caratterizzata dall'esiguo numero di pezzi superstiti sulla scacchiera, dove il re non è più soltanto un pezzo da difendere, ma diventa anche una figura di attacco. Questo preambolo scacchistico è necessario per addentrarsi nel secondo capolavoro di Samuel Beckett (1906-1989), Finale di partita (1957), che è stato presentato dalla prof.ssa Marisa Verna, docente di Letteratura francese presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, in occasione del terzo incontro del ciclo “Teatro 2011”, svoltosi giovedì 03 novembre; accanto alla relatrice, l’attore Daniele Squassina che ha dato voce al testo di uno dei maggiori autori del Novecento che nel 1969 fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura “per la sua scrittura, che - nelle nuove forme per il romanzo ed il dramma - nell'abbandono dell'uomo moderno acquista la sua altezza."
L'atto unico vede protagonista Hamm, un vecchio e ricco signore giunto al termine della sua esistenza. È lui il pezzo del re in questo finale di partita, continuamente messo sotto scacco dagli altri personaggi, primo tra tutti Clov, il suo servitore. L’incalzante scambio di battute tra questi due personaggi, che costituisce l'ordito più evidente della trama del testo, sembra veramente un alternarsi di mossa e contromossa. Lo stesso Beckett, appassionato scacchista, durante le prove dello spettacolo allo Schiller Theater di Berlino, spiegò: "Hamm è il re in questa partita a scacchi persa fin dall'inizio. Nel finale fa delle mosse senza senso che soltanto un cattivo giocatore farebbe. Un bravo giocatore avrebbe già rinunciato da tempo. Sta soltanto cercando di rinviare la fine inevitabile". A differenza dell'ambientazione abbastanza realistica di En attendant Godot (un albero, una strada di campagna, due vagabondi), Fin de partie si svolge in uno scenario che oggi verrebbe definito post-atomico. Tutto lascia presagire che sia avvenuta una catastrofe che ha cancellato quasi ogni traccia di vita sulla Terra. Hamm, Clov e i due genitori (Negg e Nell) sono gli unici superstiti che ci è dato di vedere e che trascorrono i loro ultimi giorni, ormai senza speranza, in quella che sembra essere la sala principale del palazzo di Hamm. Questi continua a tormentare Clov, dandogli ordini assurdi e poi ritrattandoli in continuazione, ma anche il servo tormenta a suo modo il padrone, con il suo alternare la minaccia di abbandonarlo al suo ostentare obbedienza. I genitori di Hamm sono invece ridotti a tronchi umani e vegetano all'interno di due bidoni della spazzatura.
Dal punto di vista della dinamica di relazione tra i personaggi, Fin de partie ricorda molto Huis clos di Jean-Paul Sartre. La desolata sala del trono di Hamm ricorda la stanza oltretombale in cui risuona una lapidaria constatazione: "L’enfer c’est les autres". Ogni personaggio è al tempo stesso aguzzino e vittima degli altri. Beckett si distanzia, però, dalla posizione dell’autore francese che, nell’opera L'Être et le Néant, afferma che tra gli uomini si può instaurare solo una relazione del conflitto in cui l’essere insieme (Mitsein) non è ammesso. Hamm e Clov sono, invece, legati da un rapporto di interdipendenza in cui il padrone è tale perché esiste un servo e, viceversa, il servo ha un suo ruolo solo in funzione del padrone. La mutua relazione è nodale all’interno di quest’opera e, più in generale, nella vita dell’uomo che comprende sé stesso rapportandosi all’Altro, concetto estremamente complicato e sfaccettato, talvolta declinato in riferimento a Dio, altre volte come semplice convivenza tra umani. Hamm, cieco e infermo, è un re impotente che può comunque reclamare il proprio status di signore in quanto detiene il potere del linguaggio; è l’unico che pone domande, farcisce di citazioni bibliche e letterarie i suoi interventi, possiede un’ideologia ed è in grado di sognare. Diversa è, invece, la condizione di Clov che, incarnando l’enigma del consenso, presenta tutti i connotati tipici di un servo subordinato: ira compressa, mancanza di affetti e di immaginazione, gesti reiterati; il suo bisogno maniacale di mettere in ordine la stanza del suo padrone prefigura l’immobilità della morte che nega ogni movimento e che costringe tutti ad accettare un piatto realismo senza illusioni.
La frantumazione di un eventuale senso della vita trova una diretta corrispondenza nello sgretolamento del linguaggio che, facendo leva su un scollamento tra gesto e parola, risulta disarticolato e confuso; le parole, così come l’esistenza umana, non significano più. Beckett attribuisce grande importanza al tempo della parola pronunciata e al ritmo del lessico francese; tale fluidità nel parlato è qui interrotta da continui sbadigli, esclamazioni, rimandi cristologici alterati, chiari segnali di un evidente fallimento del linguaggio, ormai prossimo all’autodistruzione. Proprio al linguaggio spetta ancora il compito di veicolare quella carica di umorismo e comicità di cui è pervaso il tragico mondo contemporaneo a Beckett, il quale, con un sorriso compassionevole, guarda sconsolato allo sfacelo della civiltà occidentale. All'epoca del suo debutto, la pièce venne recepita soprattutto come l’urlo di disperazione dell'umanità abbrutita dagli orrori della seconda guerra mondiale e dei campi di sterminio; in questa prospettiva possiamo leggere l’invocazione di Hamm che, al grido di “Père, père!”, riformula in chiave novecentesca il disperato appello di Gesù Cristo in croce, denunciando il problema del male e del silenzio di Dio di fronte a tante atrocità. Al di là di ogni lettura storica, quest’assurda partita a scacchi vuole rappresentare l'assoluta mancanza di senso e l'altrettanto assoluta necessità di trovarne uno, in un tableau vivant ormai incongruo, quale è la vita dell’uomo che, qualsiasi pedina incarni, non può che attendere lo scacco matto della morte, sperando di giungere quantomeno al finale di partita.