L’industria discografica in Italia è in crisi. Punto e a capo. Però ci sono molti segnali per essere moderatamente ottimisti. Almeno a giudicare dalle voci di chi opera nel settore, raccolte nel seminario del dipartimento di Scienze della comunicazione e sello spettacolo dell’Università Cattolica The italian way to pop, e in particolare nella tavola rotonda coordinata dal professor Gianni Sibilla, direttore del master in Comunicazione musicale, cui ha partecipato, tra gli altri, Giampiero Di Carlo, editore di Rockol.it e docente del master.
Enzo Mazza, presidente della Federazione industria musicale italiana (Fimi), traccia un quadro che coincide con una radicale trasformazione dell’intero settore. Le vendite su supporto fisico sono in calo costante, ma nel 2012 le vendite digitali hanno raggiunto un volume tale da compensare le perdite. Moltissimi continuano ad ascoltare senza pagare, tramite radio o YouTube, se non scaricando illegalmente da una miriade di siti. Eppure, grazie a un costante aumento dell’offerta i servizi legali di acquisto vivono da anni un trend di crescita positivo. Guidano le classifiche gli Stati Uniti e il Giappone. In Europa il mercato maggiore si conferma la Germania per il digitale tradizionale e la Francia per lo streaming.
Nel mercato italiano si ripongono grandi speranze nei servizi della telefonia mobile favoriti dalla diffusione del 4G. Questo anche a causa della scarsa diffusione di adsl e fibra ottica nella penisola. «L’Italia è un Paese vecchio e amministrato di conseguenza - denuncia Mazza -. Pochi intuiscono la gravità del digital divide che da noi cresce anziché diminuire. Come se il gap tecnologico non bastasse, chi dirige le case discografiche pensa ancora di poter decidere i gusti del pubblico rifacendosi a idee vecchie di anni. Chiaro che poi non si produca più qualcosa per i giovani, rinunciando a una fetta enorme di guadagni».
Punge il blogger Stefano Quintarelli nel cercare le cause di una musica che non riesce a decollare nei consumi e negli acquisti di massa. Effettivamente le case discografiche tendono a puntare sempre di più sui successi sicuri o sui talent show per piazzare i dischi nei pochi negozi rimasti nel panorama delle nostre città. Il mercato è sempre più segmentato tra i pochi grandi artisti dai compensi milionari e la massa di coloro che non riescono neanche a mangiare con la loro musica.
«Spesso quello che manca a questi ragazzi non è il talento, ma la visibilità e la fiducia di qualcuno che creda nel loro progetto finanziandoli», aggiunge Giovanni Gulino, voce dei Marta sui Tubi e fondatore dell’internet start-up Musicraiser. Il sito nasce proprio per permettere ai musicisti di condividere il proprio progetto con la comunità degli utenti e richiedere un contributo economico per la sua realizzazione. Maggiore è il contributo, maggiore sarà il premio per gli utenti, che può essere una maglietta autografata o una cena con la band. Unica costante: le ricompense devono essere rigorosamente prodotti non piratabili. Il meccanismo sembra funzionare bene: dei 380 progetti selezionati più della metà sono riusciti ad andare in porto.
In Italia Musicraiser esiste dall’ottobre del 2012 e a tanti musicisti fa ancora storcere il naso. «Da noi chiedere il finanziamento ai futuri consumatori del prodotto è visto alla stregua di un’elemosina - conclude Gulino -. Dite a un artista italiano che deve sapersi vendere e vi farete un nemico per la vita. Purtroppo questa è una grande tara della nostra mentalità. Nei Paesi anglosassoni, sapersi vendere o ancora meglio saper raccontare la propria storia è la regola numero uno dello show business. Questo è il motivo per cui in Italia un’idea come la nostra è arrivata da poco meno di un anno e negli Stati Uniti Slash dei Guns n’ Roses organizza intere tournee con il nostro stesso metodo». Tanti ostacoli, molte buone idee. La strada dell’industria musicale italiana per uscire dalla crisi è ancora lunga e tutta in salita.