Il suo nome di battesimo non fu una scelta casuale: i genitori cinefili, erano rimasti colpiti da un film che raccontava la tormentata storia d'amore di un certo Lord Nelson. In qualche modo Nelson Pereira Dos Santos il cinema l'aveva nel destino. Fino a diventare una delle figure più significative del grande schermo brasiliano. Ospite a Milano per il 23esimo Festival del Cinema africano, d'Asia e America Latina in qualità di presidente della giuria, ma anche per presentare il suo documentario fuori concorso sul musicista Tom Jobim, l'anziano regista è una miniera di aneddoti molto interessanti e gustosi.
Frammenti di un'esistenza intensa raccontati durante la tavola rotonda dal titolo Per un cinema postcoloniale, che si è tenuta l'8 maggio nella sede di via Sant'Agnese a Milano, con la partecipazione dei professori Marco Lombardi e Elena Mosconi, e del consulente cinematografico Gianluca Scarpellini. Cinquant'anni di produzione contrassegnati dalla coerenza, dal coraggio civile, dalla curiosità intellettuale che lo ha spinto a sperimentare generi differenti in diversi media: come Rossellini, non ha disdegnato la divulgazione attraverso il mezzo televisivo.
"Una macchina da presa in mano, un'idea in testa": questo è il motto del regista ottuagenario, ed è il pensiero che ha ispirato l'esperienza del Cinema Novo. Non era facile però imporre la propria individualità artistica nel Brasile degli anni Cinquanta. Solo il cinema di propaganda era ben accolto: un cinema tranquillo e tranquillizzante, in cui doveva rispecchiarsi una realtà sociale benestante e pacifica. Le cose, in Brasile, andavano in maniera molto diversa. E chi, come Dos Santos, si poneva come impegno di scalfire questo muro di conformismo, aveva parecchi guai con la censura. Emblematica la vicenda del suo primo lungometraggio, Rio 40 gradi. Pur di boicottare l'uscita del film, la polizia trovò tra l'altro una motivazione surreale: la temperatura media della città era di 39.6 gradi, non 40. Il vero motivo era ovviamente che mostrare scenari di estrema povertà, agli occhi del potere era propaganda comunista.
La forte presenza italiana a San Paolo permise al nostro Neorealismo di solcare l'Atlantico e venire a contatto con i giovani che si appassionavano di cinema. Dos Santos era uno di loro e se ne fece un culto. Ma anche la letteratura brasiliana degli anni Trenta ha consentito a chi la leggeva di farsi un'idea ben marcata della società. Purtroppo lo spirito combattivo, di grande forza civile del Cinema Novo non ha saputo imporsi nei decenni. La povertà continua a interessare i distributori cinematografici, ma declinata nel linguaggio retorico, privo di ambizione artistica delle telenovelas. Inoltre sta sparendo la sala cinematografica, sostituita da sontuosi supermarket: un "film" già visto in altre parti del mondo.
Detto ciò, è altrettanto vero che quando il Maestro Dos Santos muoveva i primi passi nel cinema c'erano meno di 50 film all'anno in distribuzione, ora invece si naviga su ben altre cifre.
Ma il rapporto di Dos Santos con l'Italia com'è, a parte il culto del Neorealismo? Non gli dispiacerebbe avere la nostra cittadinanza ma suo nonno, che era italiano, da anarchico la rifiutò sempre. Perciò, almeno sulla carta, non potremo mai ascrivere Dos Santos tra i nostri concittadini.
Il futuro di Dos Santos, che ambirebbe avere la nostra cittadinanza ma il nonno anarchico italiano rifiutò sempre, è un libro ancora tutto da scrivere. Per modestia dice di essere ormai sulla via della pensione, ma è evidente che ha tanta energia in corpo ancora da spendere. Se l'attività registica è più sporadica, di certo non rinuncia al lavoro di insegnante, divulgatore del buon cinema ai ragazzi. La lezione più importante, il chiodo fisso su cui batte sempre quando si rivolge al pubblico giovane è l'importanza di osservare la realtà coi propri occhi: abitudine che conserva intatta dal '49. Quando, giovanotto pieno di sogni nel cassetto, si imbarcò su un mercantile italiano per studiare cinema in Francia. Il viaggio durò così tanto che le immatricolazioni alla Scuola di cinema erano già chiuse. Ad ogni modo, non era certo tipo da arrendersi facilmente: si chiuse per un paio di mesi alla Cinematheque, e quei classici francesi rappresentarono una vera, autentica università.