Per introdurre il concetto di postmodernità Marco Salvioli (nella foto a sinistra) utilizza una citazione di Lyotard che vogliamo ricordare in occasione della Giornata della memoria: «Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale: Auschwitz confuta la dottrina speculativa. Almeno questo crimine, che è reale, non è razionale». L’autore continua citando una serie di mutamenti culturali della metà del Novecento che ci portano alla crisi, economica e sociale, del 2000.
È una crisi che interroga anche la teologia? Necessariamente i teologi hanno il compito di “spezzare” la Parola di Dio, ripensandone il messaggio, che ha validità per tutti, attraverso le gioie e i dolori, le angosce e le speranze dell’uomo. Pertanto la crisi attuale, che è spirituale e antropologica oltre che economica, diventa un kairòs, un tempo opportuno perché il teologo interroghi ancora più a fondo questa Parola e la restituisca attraverso una modalità interpretativa adeguata. La proposta di Milbank è molto forte: lui sfida la contemporaneità a riprendere il pensiero teologico nella sua pienezza, altrimenti l’alternativa non è che il nichilismo; l’illusione di una via media, puramente umana, non è percorribile.
John Milbank è il fondatore di Radical Orthodoxy, che aspira alla creazione di un nuovo umanesimo cristiano: quali sono le idee alla base di questo movimento? Le due idee fondamentali sono la partecipazione e la post-modernità. Quest’ultima non è da tradurre in “pensiero debole”, come si tende a pensare in Italia, associandola al relativismo, ma è l’esigenza di superare la modernità nel suo aspetto di secolarità, quindi l’invenzione del secolare in rapporto alla modernità. Milbank sostiene poi che la modernità nasce a partire da una cattiva teologia, quella cioè che dimentica il dispositivo teologico-metafisico della partecipazione, per cui la ripropone per uscire dalla crisi.
«Terrò costantemente una pistola puntata alla tempia dell’Uomo Moderno, ma non la userò per ucciderlo... solamente per riportarlo alla vita». Perché ha scelto questa citazione di Chesterton per inaugurare la prima parte del volume? L’ortodossia radicale vive dello spirito di Chesterton. La citazione è tratta da Manalive, Uomovivo, un romanzo straordinario nel quale si invita l’uomo a riscoprire la sua vitalità, a partire da una critica profonda di quello che è il pensiero alla moda (al suo tempo il positivismo, il materialismo, oggi è la secolarizzazione del tutto). La critica feroce alla modernità, la pistola puntata, non è però tesa alla distruzione, ma al restituire la vita ed è anche la chiave del libro, che non ha tesi conciliatorie, come quelle di Milbank del resto, che vogliono scuotere questo tempo. La teologia è fonte di bene per tutti, anche per quelli che non ne condividono l’appartenenza.
Spesso nel volume si parla di «intelligenza della fede cristiana» quale potere fecondo in grado di chiarire molti dei nodi determinanti l’attuale decadenza culturale e sociale. Di cosa si tratta? È una intuizione di Henry de Lubac, teologo gesuita che ha dato il suo contributo anche al Concilio Vaticano II, che ha pensato la teologia fondamentale non solo come un’intelligenza al servizio della fede, ma anche come intelligenza che promana dalla fede. Il dogma porta con sé un patrimonio di intelligenza che è donato e il teologo è chiamato a mostrarne la fecondità, cioè a far vedere come quella parola, quella verità, quella realtà, illumini le condizioni dell’uomo contemporaneo e dell’uomo di ogni tempo.
Il tema della donazione è centrale nel pensiero di Milbank, perché? Il dono è un trascendentale teologico, cioè riguarda tutti i temi della teologia: dalla creazione alla redenzione, dallo Spirito Santo (uno dei suoi nomi è proprio quello di “dono”) alla grazia. Dal punto di vista delle scienze sociali e antropologiche il dono è diventato l’argomento centrale per un’alternativa al modello liberal-capitalistico che oggi ha mostrato i suoi limiti e che si vuole tuttavia ancora imporre come pensiero unico. Elaborandolo teologicamente, Milbank salva il dono, lo purifica dalle derive agonistiche o dispotiche di cui il dono è affetto, e lo propone come il segreto per la ricostruzione sociale, delle relazioni tra gli individui che oggi sono estenuate da quel sistema che Mauro Magatti chiama “capitalismo tecnico o nichilistico”.
Da questa concezione del dono Milbank teorizza anche il “socialismo per grazia”? Certamente. Questo non è statalismo, non è un sistema che vuole distruggere il mercato ma tende, attraverso il contributo essenziale della Chiesa, a ricostituire i legami a livello associazionistico. Si pensa così a una società fatta di tante associazioni, quindi di tanti livelli intermedi, che temperano il mercato e l’apporto statale attraverso la logica del dono, l’unica che feconda ogni scambio umano.