Per guardare a un futuro economico migliore bisognerebbe capire come uscire dalla crisi che, cominciata nell’estate del 2007, tuttora attanaglia il nostro Paese. Ma un'analisi univoca degli economisti sulle cause ancora non esiste. Lo ha ricordato Giacomo Vaciago nella sua lectio magistralis organizzata l’11 febbraio dall’Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa (Assbb) in occasione del conferimento di 26 borse di studio, per un valore complessivo di circa 40mila euro, agli studenti giudicati meritevoli iscritti alle facoltà di Economia, Giurisprudenza, Lettere e filosofia e Scienze bancarie, finanziarie e assicurative.
Nella lezione Quando finiscono le crisi, l’economista della Cattolica ha evocato la polemica, a tratti astiosa, montata negli ultimi cinque anni tra chi parla di politiche fiscali e chi concentra l’attenzione sul debito sovrano e auspica politiche di austerità. Tuttavia, secondo Vaciago, ambedue le scuole sono rivolte a questioni di stabilità e non affrontano le questioni di efficienza ed equità. «Le crisi si superano con discernimento e nuova progettualità». Vaciago ha poi mostrato alcuni grafici, che già dal titolo riassumono alcuni mood economici da cui partire per comprendere la crisi: This time is different e Too big to fail. La prima espressione sfata ironicamente il mito che ogni crisi faccia storia a sé, quando invece nella storia dell’economia le crisi sono riconducibili a matrici originarie molto omogenee, per cui alcuni fatti epocali sono in realtà facilmente prevedibili. La seconda, rappresentata simbolicamente dai dipendenti della Lehman Borthers che abbandonano il luogo di lavoro dopo il licenziamento di massa, indica che il fallimento può coinvolgere imprese o istituzioni anche di enormi dimensioni. Non sempre, infatti, i governi sono in grado di evitare i fallimenti. «Fallisce Lehman Brothers e crolla il mondo. Non si tratta di recessione, ma di credit crunch – spiega il professore – nessuna banca presta soldi a un’altra banca, si ferma la produzione industriale e si chiudono i finanziamenti alle imprese. L'industria si chiude come una fisarmonica e si contrae la struttura produttiva». I Paesi globalizzati cadono insieme, mentre Cuba e la Corea del Nord non risentono della crisi e l’India ne rimane quasi estranea.
Una volta il mercato dipendeva dai commerci internazionali. Oggi i Paesi sono collegati dalle multinazionali, per cui la crisi è automaticamente affare di più nazioni e questa semplice constatazione ci fa capire come un Paese non può governarsi da solo. «L’Unione europea, nell’idea dei suoi fondatori, come Jacques Delors, è un matrimonio cattolico, indissolubile, tra Paesi che decidono di cooperare in un mercato unico specializzandosi in processi produttivi specifici, mirando all’eccellenza. Per statuto è quindi irrevocabile, non si torna indietro». Ma la cooperazione fruttifera può aversi, come sostiene Vaciago, solo a una condizione imprescindibile: «L'economia di mercato rende tutti gli effetti benefici ipotizzati da Smith solo se il mercato è buono. Le virtù del buon mercato consentono la specializzazione e un equo scambio tra quello che non viene prodotto in casa ma è necessario. Ci si specializza quindi su parti di beni, si importano ed esportano componenti, non prodotti finiti. Chi ne è parte, se il mercato è buono, gode dei benefici e soprattutto non vi è spazio per ladri e furti». Dal 2000 a oggi i Paesi emergenti crescono in maniera massiccia. La crisi è di conseguenza la nostra mancata crescita. «Ci denominiamo “avanzati”, ma forse ormai solo nel senso di “ciò che è rimasto”».
L'industria è pur sempre la locomotiva di un Paese moderno e in Europa la situazione è piuttosto piatta. Tuttavia siamo consapevoli che la crescita altrove è pur sempre conseguenza dei nostri investimenti: «Prima si esportavano materie prime o prodotti finiti e le fabbriche crescevano in Europa, oggi, anche se dati certi ancora non ne esistono, non è più così. Ad esempio la Germania esporta motori, non auto». Si parla di crisi dell’euro: è davvero così? Spiega Vaciago: «Nel 2008 la Germania si ferma a causa del credit crunch e poi rimbalza tornando a crescere; noi invece stiamo tornando indietro e la contrazione è piuttosto grave. Non si tratta di recessione: le fabbriche vuote, con scritto “vendesi”, rappresentano chiaramente una diminuzione della capacità produttiva e quindi per risalire bisogna far ricrescere il potenziale, non solo la domanda di beni».
Secondo l’economista della Cattolica la finanza degli ultimi anni ha acquistato senza occuparsi dell’oggetto dell’acquisto, guardando solo alle cifre e opacizzando prezzi e operazioni. «Ma una finanza opaca è contro natura, perché chi non è consapevole di ciò che acquista non può dare frutto a un buon mercato». Se il mercato è buono la moneta perfeziona il mercato e arrivano i benefici. Ma al momento l’Europa è ancora una terra promessa e il nostro Paese non cresce perché non punta sulla qualità, paga l’eccesso di debiti inutili, soffre di un panico in grado di fermare il mercato e il razionamento del credito, che amplifica e talvolta genera situazioni di crisi dell’industria, portando dietro di sé una caduta di fiducia. «L’augurio è quello di sentire un giorno dei ragionamenti sulla legalità, le buone regole e la necessità di farle rispettare, nella considerazione di ciò che sarà delle generazioni future, di quello che ci sforziamo di insegnare ogni giorno ai nostri studenti di economia».