«Un attacco non inatteso nel modus operandi». Secondo il professor Marco Lombardi, docente di Crisis management e direttore del centro di ricerca sulla sicurezza Itstime, la descrizione dell’attentato di Nizza compiuto nel giorno della festa nazionale francese sulla Promenade des Anglais la leggiamo sul magazine del jihadismo, «addirittura nel numero 2 del 2010». Nella videointervista ci spiega che non si tratta di colpi di coda, ma che dovremo convivere con questa “guerra ibrida” per decenni.
Il professor Riccardo Redaelli, docente di Geopolitica, mette in evidenza l’effetto di imitazione del fenomeno terroristico, chiaramente distinguibile nell'attentato di Nizza. Quello che preoccupa, però, è soprattutto il fatto che in Francia vivono milioni di Francesi che non si sentono integrati e covano rabbia contro il loro stesso Stato. Un fenomeno che chiede una controradicalizzazione all’interno e di mettere le autorità religiose islamiche, in Europa e ei Paesi arabi, di fronte alle proprie responsabilità, per togliere ogni legittimazione a chi usa la violenza in nome di Dio.
Nell’ultimo numero del bimestrale dell’Università Cattolica “Vita e Pensiero”, in uscita, il filosofo canadese Charles Taylor invita, davanti a terrorismo e immigrazione, a stare attenti a non fare di ogni erba un fascio. E a evitare visioni ipersemplificate.
Occidente e islam, l’incontro è possibile
di Charles Taylor *
Perché oggi la religione viene a costituire la principale definizione di ciò che può esserci di sbagliato, pericoloso e problematico in rapporto a persone di altre religioni che vivono nei nostri Paesi?
Alla base di questa definizione sta un tipo molto pericoloso di omissione. In Francia, dopo l’attentato del gennaio 2015 a «Charlie Hebdo» e anche dopo i terribili eventi del 13 novembre 2015, è stata usata una frase importante: il ne faut pas faire l’amalgame, non si deve mescolare tutto, non facciamo di ogni erba un fascio. Ciò che queste persone cercano di dire è: non date per scontato che la religiosità musulmana di queste donne con l’hijab sia la stessa presunta religiosità dei fondamentalisti o dei jihadisti. Non è necessariamente la stessa.
E invece quello che accade in molte società occidentali è proprio che i cittadini vengono incoraggiati a faire des amalgames di quel genere, e per giunta in maniera molto grossolana. Stiamo facendo in modo che la gente passi sopra a due enormi differenze. Esiste una religiosità che accetta pienamente il mondo temporale, la democrazia e ciò che essa significa; questa è l’esperienza di chi come noi si è battuto contro la Carta dei valori laici, trovando nuovi alleati e amici che prima non conoscevamo, tra i quali anche donne con l’hijab. Poi c’è il tipo di religiosità fondamentalista che non è la stessa cosa. E infine ci sono i jihadisti che rappresentano un’ulteriore differenza rispetto ai fondamentalisti.
Ecco perché questo totale amalgame è gravemente sbagliato. Le persone suscettibili di arruolarsi nelle fi le dei jihadisti sono generalmente molto isolate, malamente socializzate, poco felici all’interno della comunità. Sono persone che spesso hanno problemi di identità molto gravi, e per alcuni, particolarmente per i giovani uomini, la soluzione alle crisi di identità può assumere la forma della conversione a un’ideologia che sia davvero violenta. In parte perché questa può apparire assoluta e chiara, in parte perché richiede di colpire coloro ai quali viene attribuita la responsabilità di avere causato la crisi di identità.
In questo caso, naturalmente, si tenta di dare la colpa alla civiltà occidentale che guarda l’islam dall’alto in basso e ti fa sentire a disagio se hai un’identità musulmana. […] In sé, non si tratta di un fenomeno specificamente islamico. Negli incidenti del 2014 in cui un soldato canadese è rimasto ucciso da un jihadista, quest’ultimo era nato in Québec, aveva un’origine québecois. Si è sentito attratto dal jihadismo non perché leggesse il Corano, ma perché quella ideologia rappresentava la violenta negazione del mondo in cui era cresciuto.
Si tratta di giovani molto disturbati. Così ci troviamo di fronte a un doppio errore, un doppio amalgame che si manifesta in molte delle nostre discussioni, continuamente: l’islam è un blocco unico, la donna con l’hijab ha lo stesso orientamento di pensiero e la stessa sensibilità dell’imam fondamentalista, ed entrambi sono uguali al jihadista. Ma in realtà ci sono grosse differenze tra queste tre fi gure. La probabilità che una donna con l’hijab vada a fare il jihad in Siria è prossima allo zero.
Tutte queste considerazioni riguardo alla complessità della religione, e alla distinzione tra religione e altre cose, vogliono dire che dobbiamo fare delle scelte nel nostro modo di categorizzare. Se si categorizza in un certo modo, se si pensa che l’unico modo che abbiamo per fermare tutto questo sia fare pressione sulle persone che indossano l’hijab, se si crede di poter agire positivamente sul fenomeno facendo di ogni erba un fascio, si opera una stigmatizzazione. Si stigmatizzano pratiche particolari mettendole sullo stesso piano di pratiche orribili come l’invio di terroristi a uccidere decine di ragazzi che sono usciti alla sera. Quindi, il messaggio forte è il ne faut pas faire d’amalgame, il ne faut pas faire de stigmatisation: non si devono operare stigmatizzazioni.
Ma ciò che sta dietro alla stigmatizzazione, ciò che la fa funzionare è la visione ipersemplificata di quello che è una religione, e nel nostro caso di quello che è l’islam. Non possiamo dare la colpa alle tante persone che fanno di ogni erba un fascio: guardano solo la televisione, non conoscono nessun musulmano; è chiaro che finiscono per pensare così. Ma noi dobbiamo combattere con forza questa tendenza nelle nostre società, per andare in un’altra direzione.
* Professore emerito di filosofi a alla McGill University di Montreal. Nel 2007 è stato insignito del premio Templeton e nel 2008 del premio Kyoto per il suo impegno nel campo delle scienze umane. Ha pubblicato studi sulla modernità tradotti in tutto il mondo. Il suo ultimo saggio uscito in Italia è L’età secolare (2009). Il testo che qui pubblichiamo è l’intervento pronunciato il 1° dicembre 2015 all’annuale Québec Lecture sul tema «Democrazia, diversità, religione».