«Abbiamo a che fare con un nemico dai tratti sfuggenti, ma che sa quello che fa. Sanno come siamo fatti, quali sono i meccanismi che creano il terrore e lo diffondono. È necessario sviluppare una controstrategia, una counter narrative in grado di fornire un messaggio alternativo». Andrea Plebani, professore di Storia delle Civiltà e delle Culture Politiche nella sede di Brescia dell’Ateneo, è uno degli esperti chiamati a far parte della Commissione di Studio sullo stato attuale del fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista in Italia, istituita dal governo Renzi.
«Il nemico che abbiamo di fronte è in continua evoluzione» afferma il professore. «Più volte ci hanno indicato come un possibile bersaglio, basti pensare ai numeri di Dabiq sull’Italia. Siamo uno dei Paesi maggiormente coinvolti in scenari complicati, come l’Afghanistan, la Libia o il Libano. E siamo un Paese che si è esposto, e che si espone, anche solo per la nostra propensione ad accogliere. Questa disponibilità ad aiutare deve essere accompagnata da un sistema di controlli rigorosi e continui in modo da non essere sfruttata contro di noi».
Fino all’uccisione di Anis Amri a Sesto San Giovanni, si è avuta la percezione che il livello di esposizione dell’Italia a un eventuale attacco non fosse alto, o almeno non al livello degli altri Paesi europei. Siamo preparati a un eventuale attentato? «Dal mio punto di vista, l’opinione pubblica non ha ben presente quali siano i rischi a cui andiamo incontro. L’Italia è certamente un Paese che ha le sue specificità: è diversa la minaccia che potremmo affrontare, sono diversi anche i numeri. Purtroppo questo non vuol dire nulla: basta un solo uomo che sia in grado di compiere un attacco per riportarci a situazioni simili rispetto a quelle degli altri Paesi. L’Italia ha delle risorse importanti che molto spesso non vengono evidenziate. Abbiamo vissuto gli anni di piombo, abbiamo una mentalità preparata, abbiamo strumenti per rispondere. C’è un lavoro oscuro ma importantissimo delle nostre agenzie di sicurezza. Ma il mito che l’Italia sia un Paese inattaccabile non deve essere incoraggiato».
Come si sviluppa una giusta coscienza nell’opinione pubblica? «Ci vogliono educazione, integrazione, risorse, pazienza. E, soprattutto, una forte coscienza del fatto che la maggioranza della comunità islamica rigetta con forza le istanze e il modus operandi dei gruppi jihadisti. La conoscenza dell’altro è fondamentale. Molto, nel problema che stiamo affrontando, risiede nel messaggio che queste formazioni lanciano. Un messaggio che riesce a raggiungere un ampio numero di persone con formule differenti. È necessario sviluppare un'azione di counter narrative. Devono essere le associazioni, la società civile e non solo le istituzioni a farsene carico».
Come ha detto anche il premier Paolo Gentiloni, web e carceri sono i luoghi in cui il rischio radicalizzazione è più alto. Come prevenirlo? «Le carceri si prestano perché sono luoghi chiusi, di marginalizzazione, in cui i venditori della visione estrema del jihad hanno buon gioco. Certo, non si può pensare di monitorare l’intera popolazione carceraria sensibile ventiquattr’ore su ventiquattro ma si può fare in modo di isolare i detenuti fonte di radicalizzazione e di contestarne le tesi. È necessario esporre la popolazione carceraria sensibile a queste visioni a messaggi alternativi, a interpretazioni diverse. Molto spesso questi fenomeni di radicalizzazione avvengono perché c’è domanda di religione. Se lasciamo il monopolio di questa risposta a elementi radicalizzati e non forniamo alternative, facilitiamo il loro lavoro».
E per quanto riguarda il web? «La situazione è più complicata. È importante mostrare i limiti del loro pensiero, usare i loro stessi canali per lanciare un messaggio alternativo, mostrare la sofferenza che essi causano in primis alle loro famiglie. Non abbiamo a che fare con gente inesperta. Dobbiamo sviluppare una controstrategia, ma è un lavoro di ampio respiro che non va fatto solo su elementi radicalizzati o a rischio radicalizzazione, ma che deve coinvolgere l'intera comunità».
Che cosa può fare l’Europa per incrementare la propria sicurezza interna? «Va fatto un lavoro di implementazione nello scambio di informazioni ma pensare a un’unica intelligence europea mi sembra un’utopia. Non esiste un sistema che sia impenetrabile al 100%. Mentre il sistema cerca di adattarsi, gli attentatori puntano a scovare la maglia allentata. Molto si sta facendo, molto altro si può fare. Penso a un potenziamento delle attività di investigazione, a una maggiore velocità nello scambio di informazioni. E, soprattutto, bisogna investire nella ricerca. L’Italia, in questo senso, ha ancora molto da fare».