di Giovanni Cesare Pagazzi *
I Vangeli mostrano un Gesù che non solo gode della convivialità della tavola e nutre gli affamati, ma si mostra pure intenditore del processo di produzione e approvvigionamento delle materie prime degli alimenti: il frumento da seminare e raccogliere (Mt 13,3-9.24-30), i pesci da pescare e scegliere (Mt 13,47-50), un ortaggio adatto per i condimenti (Mt 13,31-32), il sale per insaporire (Mt 5,13). I Vangeli regalano un altro tratto del portamento di Gesù, quasi per nulla notato: con buona probabilità, sapeva cucinare! Diamo ancora voce alle parabole che mostrano l’attenta osservazione del Signore verso le cose di ogni giorno, dentro cui egli indica il fremito del Regno. Tra le “cose di ogni giorno”, annunciatrici del Regno, sta pure la cucina:
«Il Regno dei cieli è simile al lievito che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata» (Mt 13,33). Stupiscono la resa puntuale dei gesti (“prendere” e “mescolare”), la menzione agli ingredienti (“lievito” e “farina”), l’allusione al tempo necessario alla lievitazione («finché non sia tutta lievitata»), ma soprattutto la precisione delle dosi, senza cui è impossibile cucinare: «tre misure di farina»: come ogni cuoco che si rispetti, è tenuta segreta la quantità di un ingrediente, il lievito.
Tra le cose che distinguono gli umani da qualsiasi altra forma vivente, compresa la più evoluta, è il gesto di cucinare. Come ogni altro essere vivente, uomini e donne si alimentano, procurandosi le sostanze necessarie al proprio fabbisogno, ma a differenza di essi (ed è una differenza sostanziale) cucinano. Una previa distinzione sta nel fatto che l’uomo non consuma unicamente risorse presenti nell’ambiente circostante, ma impara a produrle grazie all’allevamento e all’agricoltura; molte parabole di Gesù si concentrano sulla produzione degli alimenti grazie al lavoro dei campi e a quello pastorale. Ma la differenza rispetto agli altri viventi spicca ancor più evidente per il fatto che l’uomo cucina. Questo gesto è stato reso possibile dalla capacità – essa pure unicamente umana – di accendere e usare il fuoco, azione feriale e solita in ambienti domestici, urbani e industriali, eppure da sempre considerata così decisiva da esser registrata in molti miti di fondazione di civiltà come momento costitutivo dell’umanità dell’uomo; dono degli dèi, ovvero bottino rubato alle mani avare degli stessi celesti (come nel caso di Prometeo).
Lo sguardo di Gesù che si posa attento ed esperto sul gesto di cucinare non rappresenta quindi un espediente didattico per parlare di Dio con parole semplici, piuttosto scorge la vibrazione del Regno in quell’atto così originario da essere costitutivo dell’uomo e del suo legame col mondo, non solo accolto, ma trasformato. In effetti, cucinare è innanzitutto trasformare materie prime, accostando, mescolando, cuocendo ingredienti diversissimi come il riso e il pesce e a volte perfino contrastanti come il dolce e il salato, l’acido e il basico. Per favorire siffatta integrazione, gli ingredienti devono essere modificati, puliti, misurati, aggiunti, ridotti, affinché ciascuno dia luogo alle caratteristiche degli altri.
Quest’opera di trasformazione non impegna un singolo uomo, ma tutto l’ethos ambientale, l’intera cultura in cui vive: sempre carne è, ma un conto se “cotoletta alla milanese”, o “fiorentina”, ovvero “abbacchio”. La cucina è anche frutto dell’ambiente culturale e ne conserva la memoria del passato in modo ben più arioso di quanto s’immagini. Un piatto tipicamente lombardo, “cotechino e polenta”, magari sigillato con un buon caffè espresso, raduna una storia ben più vasta di quella regionale: il granturco per la polenta proviene dalle Americhe, la tecnica di insaccare la carne suina arriva dagli antichi popoli germanici e le proprietà del caffè furono scoperte da pastori degli altopiani etiopici. In ogni piatto si trova un piccolo mondo. La cucina coglie l’uomo nel proprio ambiente culturale anche perché è un fatto di apprendimento.
A cucinare s’impara – per imitazione e pratica – grazie a una vera e propria trasmissione del ‘sapere culinario’, compresi arcani segreti da mantenere nella strettissima cerchia familiare o professionale. Dove e da chi Gesù avrà imparato che per un buon pane è necessario aggiungere quella quantità (segreta) di lievito a tre misure di farina, non due, non quattro? Chissà per quanti anni il Figlio di Dio avrà visto Maria con ‘le mani in pasta’, come ogni donna di casa di allora; un gesto intimo, domestico, eppure foce in cui confluiva tutta una tradizione familiare e culturale da lei appresa e ora tramandata al Figlio.
La tradizione del sapere culinario richiede una trasmissione precisa e una ricezione severamente attenta; eppure, come ogni arte (con buona probabilità la cucina è stata una delle prime tecniche e la prima arte), essa promuove l’inventiva, la trovata, la scoperta originale, il tocco che trasforma la pietanza tradizionale in un piatto dai sapori rinnovati. Essendo molto tradizionale, la cucina è l’ambito della creatività. E come Caravaggio teneva nascoste le composizioni di alcuni suoi pigmenti, così un cuoco creatore è giustamente riservatissimo anche quando trasmette.
Cucinare non rappresenta solo un’opera di facilitazione dello stomaco, predigerendo i cibi grazie alla cottura; infatti non è connesso unicamente alla necessità di alimentarsi e alimentare, poiché esalta anche l’altro aspetto del mangiare, vale a dire il piacere e il com-piacere. Il primo piacere provato è stato succhiare il seno di colei che ci nutriva. Cucinando, gli umani amplificano in modo inimmaginabile per qualsiasi altro vivente l’esperienza del piacere, grazie alla quale il Creatore – con un linguaggio tutto di carne – profetizza alla carne medesima la sua dignità e la sua futura redenzione. Certo, si potrebbero assumere pillole di carboidrati, proteine e lipidi, idratarsi con liquidi isotonici e ipotonici, ma mangiare e bere sono altra cosa.
Chi cucina intuisce le proprietà nutrizionali e le potenzialità di piacere dei singoli ingredienti e della loro combinazione. Se un cibo non piace, reintegra energie, ma non nutre. Cucinare esprime anche, in modo tutto speciale, l’attenzione ai legami che identificano, vale a dire quelli con le cose e con le persone. Significa avere fiducia sia nella qualità di ingredienti e attrezzi, sia nella fattibilità del piatto e nell’apprezzamento di chi lo gusterà. Richiede un grande rispetto per le cose (ingredienti e arnesi) affinché un’azione maldestra o fuori tempo non rovini il sapore dei piatti: quanto è terribile un arrosto bruciato, o una minestra eccessivamente salata; si mangiano comunque, ma con scarsissimo gusto.
Per cucinare si ha cura delle persone tanto quanto delle cose. Chi cucina ha l’obbligo di avere bene in mente ciò che piace al proprio ospite, ciò che può mangiare e ciò che deve mangiare, evitando che la propria buonissima intenzione di nutrire con piacere risulti indigesta, non conforme alla gastro-nomia, cioè alla legge dello stomaco. Non è gran segno di cura preparare un pur ottimo brasato al vegetariano, o una meringata al diabetico. La grandezza di un cuoco – specialmente nell’ambito domestico – si misura anche nella capacità di rendere appetitosi cibi che non risultano immediatamente graditi, ancorché necessari alla salute. Caso emblematico è quello del bambino che aborrisce la verdura o la carne; la mamma o il papà abili coi fornelli sapranno preparare pietanze dove verdura e carne nemmeno si vedono e si sentono, anche se ben presenti. Insomma: cucinare è atto umanissimo che raccoglie con attenzione cose e persone, esaltando il sapore del mondo (di ogni cosa del mondo) ed educando il palato a gustarlo.
Il Risorto cucina
Ma i Vangeli restituiscono del Figlio nella carne un dettaglio ben più inatteso della ricetta per fare il pane. Esso acquista un valore quanto mai significativo poiché reso alla fine del Quarto Vangelo; ed è risaputo che un narratore curi con attenzione tutta speciale l’inizio e la fine di un racconto, giacché l’inizio promette e la fine raccoglie. Oltretutto si tratta narrare l’ultima apparizione del Risorto. Il contesto è il lago di Tiberiade, dove il vincitore della morte, non riconosciuto, incontra Pietro, Giovanni, Giacomo, Tommaso, Natanaele e altri due, tutti amareggiati da una nottata di pesca infruttuosa (Gv 21). L’approccio di Gesù è piuttosto ironico, dato che il lettore sa già che gli esperti pescatori sono a mani vuote: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?».
Alla risposta negativa, il Signore ribatte incoraggiando una nuova uscita sul lago. Ed ecco la stupenda pesca miracolosa. Finalmente quegli uomini hanno cibo in abbondanza da offrire allo sconosciuto rimasto a riva. Eppure, «appena scesi a terra, videro un fuoco di brace, con del pesce sopra e del pane» (...quello delle tre misure di farina). Certo, con la potenza della sua parola di Risorto avrebbe potuto creare dal nulla brace, fuoco, pesce e pane, ma la concreta azione compiuta da lui subito dopo, prendendo pesce pescato dagli apostoli, toglie tutti i dubbi circa l’effettiva manualità del Risorto e il suo rapporto con le cose, disponibili alla presa della sua mano.
Ciò dà adito a una lettura realisticamente gestuale della vicinanza del Risorto a fuoco, pesce e pane, accompagnando con gentilezza il lettore a dire «Gesù» come risposta alle domande «chi ha raccolto la legna?», «chi ha acceso il fuoco?», «chi ha procurato le materie prime?», «chi ha cucinato?». Il testo diventa comunque più esplicito al riguardo: Gesù, senza scostarsi dal fuoco, chiede di portargli pesce appena pescato, con l’evidente intenzione di cucinare anche quello.
Stupisce il mancato riconoscimento della particolarità e pregnanza del gesto del Risorto, che Giovanni – unico nel Nuovo Testamento – restituisce. La distrazione dalla specificità insostituibile del cucinare di Gesù accomuna le letture antiche e recenti. Mentre l’esegesi patristica alleggerisce le caratteristiche del gesto trasformandole in mere allegorie, quella contemporanea ne indebolisce la portata, assorbendo la morfologia del “cucinare” nel generico “alimentare”, “nutrire”, “dare cibo”. Ciò è attuato riferendo il cucinare di Gesù alla moltiplicazione dei pani o all’Ultima Cena. Certo, siffatta operazione è compatibile con l’intera narrazione evangelica, tuttavia sminuisce la particolarità propria dell’azione del Risorto, riducendola a variante facoltativa di un contenuto già espresso.
Questo però non rispetta il fatto che proprio quel gesto – antropologicamente molto qualificato e distinto rispetto al sommario nutrire – sia stato messo per iscritto dal narratore, insieme agli altri segni ritenuti necessari e sufficienti a suscitare la fede nel Figlio di Dio (cfr. Gv 20,30-31;21,24-25). Con sorprendente facilità è sorvolato l’atto di cucinare (Gv 21,9), limitando l’attenzione al “prendere” e “dare” pane e pesce (Gv 21,13), così da evidenziarne unicamente le assonanze eucaristiche. In tal modo però non si rende conto delle notevoli differenze con i racconti eucaristici, come la pesantissima assenza dei verbi “spezzare” e “ringraziare” o, al contrario, non è sufficientemente notata la presenza di un’azione complessa e articolata come appunto il cucinare, del tutto mancante nella moltiplicazione dei pani e nell’Ultima Cena.
Sembra che si ricorra all’Eucaristia per legittimare la plausibilità dei gesti del Risorto, privando l’azione compiuta sulla riva del lago di ciò che la distingue da ogni altro atto di Gesù. Sicuro, il riferimento eucaristico è innegabile; tuttavia non si dà alcun pasto che non c’entri con l’Eucaristia, come san Paolo scrive con penna inequivocabile in 1Cor 11,20-34. Si onora quindi l’intenzione del narratore riconoscendo la qualità rivelativa della cucina del Risorto, in ordine ad apprendere lo stile del Figlio nella carne. Gesù non si accontenta di alimentare, nutrire, ma cucina, con quanto questo umanissimo gesto richiede in attenzione a cose e persone.
Mi sia concesso un attimo di quell’immaginazione tanto auspicata da Ignazio di Loyola al fine di gustare i misteri della vita del Signore. Chissà come Gesù avrà cucinato il pesce pensando a Pietro e compagni, alle loro esigenze e preferenze: un po’ crudo per non perdere il sapore dell’acqua di lago? Ovvero arrostito a puntino, così da arricchirne l’aroma col profumo resinoso della legna arsa? Non sappiamo. Una cosa però è certa: se egli ha cucinato, ha intuito non solo le proprietà nutrizionali di pane e pesce, ma ne ha pure esaltato le potenzialità di piacere e compiacere. Se ha cucinato, ha posto tradizionale e creativa attenzione a cose, tempi, azioni e persone, ai loro gusti, a ciò che potevano e dovevano mangiare. Gli ospiti avranno colto nel gesto del Risorto un indizio di quelle azioni promesse da Dio che «preparerà un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffi nati» (Is 25,6)? A dirla tutta, per ora si tratta solo di un po’ di pane e pesce; ma il fatto che siano cucinati annuncia che fornelli e pentole sono già all'opera.
* docente della Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, “La Rivista del Clero italiano” (VP) numero 2/2014