È un processo di rielaborazione sociale bloccato quello degli anni di piombo in Italia. Gli eventi che partono da piazza Fontana fino ad arrivare all’omicidio Ruffilli sono ancora una ferita aperta per chi li ha vissuti e non sono stati consegnati sotto forma di memoria le nuove generazioni. È quanto ha rilevato il progetto di ricerca nazionale, cofinanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca, sotto la direzione scientifica di Camillo Regalia, docente di Psicologia sociale all’Università Cattolica.
L’assunto di partenza dello studio è che la rielaborazione di eventi di matrice terroristica, che per loro natura hanno l’obiettivo di destabilizzare l’intero assetto comunitario di un Paese, richiede di essere affrontata non solo a livello individuale, cioè da chi è stato direttamente coinvolto o come vittima o come responsabile, ma anche a livello collettivo, cioè studiando i processi di condivisione sociale di ciò che è avvenuto.
Lo studio condotto tramite focus group e questionari ha coinvolto perciò 700 persone di diverse città italiane, suddivise in tre fasce d’età: chi ha vissuto gli anni di piombo da adulto, chi li ha attraversati da adolescente e chi non li ha vissuti proprio, cioè i giovani di oggi.
Questi anni vengono percepiti dai membri di tutte e tre le generazioni come una ferita aperta. I soggetti coinvolti sentono una reale mancanza di impegno da parte delle istituzioni nell’identificare i responsabili, l’assenza di una chiara e univoca condanna della violenza di quegli anni da parte di ambienti politici, culturali e mediatici e la non chiarezza del motivo per cui i terroristi abbiano pagato meno di quello che avrebbero dovuto.
Emerge inoltre come l’ultima generazione, quella degli attuali giovani adulti, percepisca un’assenza di processo condiviso di costruzione della memoria di quanto avvenuto. È presente un “vuoto” nella trasmissione sia tra le generazioni familiari (“non ci viene raccontato” “non ne ho mai parlato ai figli”, “è rimasto dentro di noi come un qualcosa di impossibile da avvicinare”) sia a livello sociale (“più pellicole che documenti”). Tale assenza di cura della memoria viene legata alla presenza di sfiducia nelle istituzioni. Chi appartiene alle generazioni più anziane sente ancora vivo il rischio del riattivarsi del terrorismo degli anni di piombo.
Per poter fornire e comprendere la complessità dei processi di rielaborazione di quegli anni la ricerca ha raccolto e dato voce anche alle persone direttamente coinvolte, ai feriti e ai parenti di vittime di stragi o attentati ad personam. Sono state intervistate 45 persone tra feriti e familiari. La ricerca ha mostrato che sono molteplici i percorsi seguiti da queste persone per affrontare e dare un senso a quanto successo.
La quasi totalità dei soggetti - sia quelli che seppur nella perdita traumatica sono riusciti a dare un senso a ciò che hanno subito, sia quelli che soffrono ancora, sente comunque dolore rispetto a quegli anni. Queste ferite riguardano l’assenza di impegno univoco nella ricerca della verità rispetto a ciò che è avvenuto (riportata in particolare dalle vittime di stragi); l’assenza di una condanna e disapprovazione morale pubblica e condivisa dei terroristi e della loro violenza omicida (riportata in particolare dalle vittime di attentati ad personam). In generale la sensazione diffusa e fonte di tensione e di disillusione è quella di essere rimasti soli per tanto, troppo tempo nel compito di rielaborazione e cura della memoria di quanto successo.
L’istituzione per il 9 maggio della Giornata della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice voluta nel 2007 dal Presidente Napolitano, è l’evento che ha cambiato almeno parzialmente questo stato d’animo e ha ridato fiducia nella possibilità di non essere abbandonati.