«Oggi il dibattito sull’Europa e sull’Unione europea è inabissato nelle domande e sommerso da risposte, che a volte non corrispondono alle domande. C’è una crisi di riconoscimento nelle istituzioni europee, perché le relazioni tra i popoli e i cittadini hanno tradito il principio di pari dignità. “L’epidemia della solitudine”, l’ha definita die Welt». Vincenzo Cariello, docente di diritto commerciale all’Università Cattolica, introduce così “Europa. Quale ruolo per l’Italia”, in dialogo con Federico Fubini, vicedirettore del Corriere della Sera, e Stefano Micossi, direttore generale di Assonime.
«Nei primi decenni dell’integrazione europea, l’unione politica aveva coinciso con un aumento del reddito e del potere d’acquisto per tutti gli Stati dell’Europa occidentale» esordisce Fubini. «Così stando le cose, era certamente più facile andare d’accordo. Gli Stati membri erano pianeti che viaggiavano insieme nello spazio: dimensioni diverse, diversa forma, ma stessa velocità. Poi sono arrivati dei grossi meteoriti, come amo definirli. La caduta del muro, con l’ingresso in Europa di centinaia di migliaia di lavoratori dai Paesi ex comunisti dell’Europa orientale, l’entrata in scena della Cina, l’avvento dell’euro e la globalizzazione. Ma soprattutto la rivoluzione digitale e quella dell’automazione, che ha implicato aumenti di produttività per quegli Stati con ceti medi e tessuto imprenditoriale in grado di rinnovare le proprie conoscenze».
«Questi meteoriti - continua il giornalista - hanno deviato i pianeti europei in direzioni diverse. Oggi tra lo stipendio mensile di un appartenente al ceto medio italiano e quello del suo omologo olandese non ci sono più un centinaio di euro di differenza, come negli anni ’70, ma più di mille. Quando non si fa parte dello stesso ceto sociale andare d’accordo è molto più difficile: sia quando gli interessi sono comuni, sia ancor più quando gli interessi sono diversi». «Se noi siamo indietro rispetto a molti altri Paesi - conclude - dobbiamo prendercela con la nostra incapacità di leggere i “meteoriti” e l’impatto che avrebbero avuto su di noi. Ma un po’ di colpa è anche dell’Europa, che negli ultimi trent’anni ha cavalcato gli aspetti positivi dell’integrazione lasciando agli stati membri il compito di affrontare quelli negativi. Si è presa, insomma, troppo cura dei “vincenti” e troppo poco dei “perdenti”, di chi come noi stava rimanendo indietro. E allora vediamo che i perdenti si rivoltano contro l’Europa e minacciano la sua tenuta istituzionale».
«L’idea ormai comune nel nostro Paese è che quella situazione non sia colpa dell’Europa» dice Stefano Micossi. «Ma l’Europa non ha i poteri o le competenze per occuparsi di stato sociale o della distribuzione della ricchezza tra gli individui all’interno dei Paesi. Ciò che ci unisce è molto più forte di ciò che ci divide. Abbiamo un modello di democrazia invidiato in tutto il mondo, non ci piace la pena di morte, crediamo nel multilateralismo. Sembra poco, ma non lo è. L’impressione di una crisi irreversibile e ingestibile, quasi esistenziale, del progetto europeo è un sentimento che esiste solo in Italia. Gli stessi Paesi di Visegrad, da quando sono entrati, non hanno avuto un giorno di recessione e sono cresciuti a un ritmo doppio rispetto al resto dell’Europa. Rispondendo a Fubini, l’idea che ci debba essere lo stesso salario da tutte le parti non regge, perché ci sono differenze enormi di produttività. Inoltre, più che il calo dei salari, ciò che alimenta la rabbia sociale è la mancanza di prospettive. Larga parte della classe media italiana non riesce a vedere la fine del tunnel».