Mi presento la sera del ritrovo nella sala ristorante dell'hotel Villa Angela con leggero ritardo: la notte precedente ero a Cuneo a festeggiare le nozze di un amico. L'Alta Velocità mi ha reso parte del sogno garibaldino di attraversare l'Italia e in poche ore il Golfo di Napoli ha usurpato le Alpi Cozie dal mio finestrino.

Faccio un giro di saluti introducendo l'amico, con cui ho scritto il progetto che insieme ad altri cinque sarà oggetto della settimana di lavori. Stringo la mano con partecipazione alla docente, story editor e story guru che ci accompagnerà in questa esperienza: si chiama Bobette Buster, insegna alla University of Southern California e lavora abitualmente con i giganti di Hollywood. «Nice to meet you», le dico solo.

A cena osservo i presenti. Molti sono amici, alcuni li conosco solo di vista, altri non so chi siano. Di tutti loro so comunque qualcosa: che hanno preso treni o aerei, hanno sospeso il lavoro e lo studio per ritrovarsi sotto questo tetto, in questo momento. Questo tetto è un cielo ed è il sogno di scrivere. Un cielo di stelle che ogni tanto cascano facendoci desiderare.

«Speriamo che ci dia dei feedback», mi dice Giuseppe prima di dormire. Si riferisce al nostro soggetto. Lo dice ingenuamente, perché non ha mai partecipato a una sessione di sviluppo. Oltre a scrivere di eroi e tombe, studia Etica della Vita in una scuola di dottorato e contrabbanda di sé un'idea professionale. «Sì, speriamo».

 

 

 

I primi due giorni la professoressa Buster, che come tutti gli americani si fa chiamare semplicemente per nome, Bobette, ci ha fatto lezione in una villa chiamata La Colombaia che è stata dimora estiva di Luchino Visconti. Aiutati da un totale e perfetto isolamento dal mondo dovuto alla scarsa ricezione telefonica del luogo siamo stati pienamente immersi in una lunga sessione di autoanalisi finalizzata allo storytelling. Le storie sono movimento, inversione di polarità, logos; e poi organizzazione del discorso, struttura. E partono sempre dall'uomo, dal suo spirito e dal suo tempo: lo zeitgeist è un ospite clandestino della nostra creatività, a volte gradito, a volte meno.

Bobette indicava fermamente la luna. A volte ricadevo nell'errore degli stupidi e mi imbambolavo ad ammirare il dito. L'autocompiacimento lasciava spazio allo sgomento quando mi accorgevo dell'astro in rotta di collisione sulle mie certezze.

I tre giorni successivi sono stati dedicati interamente allo sviluppo dei soggetti. Venti partecipanti divisi in due gruppi, un tavolo. Sei soggetti da discutere. Storie d'amore, d'amicizia, di perdite; comedy, romance, sitcom. Bocche e orecchie in attesa di rivivere il rituale primario, quelle quattro parole che da millenni fermano il mondo: ti racconto una storia. Bobette, ieratica e imperturbabile, pronta a officiare la cerimonia.

Siccome mi ero abituato a un'immagine di Bobette quasi eterea è stata una sorpresa vederla questa volta nelle vesti di Caronte, puntare sadicamente il dito verso il basso, gli intestini del mondo, alla ricerca di quell'ingranaggio infernale che ti ha fatto pensare proprio quella cosa che hai scritto, scardinarlo e lasciare che la tua anglofonia risulti impreparata perfino ad approntare le più elementari difese, come un banale «I hadn't thought of that».

Of course! Certo che non ci avevi pensato, sembra risponderti Bobette. Risalire la corrente del proprio processo creativo è del resto un'esperienza che può essere molto seria: ti impone delle domande non scontate sul perché pensi o credi di pensare quello che di solito pensi. Insomma, un accogliente zerbino con su scritto "Welcome!" sul portone di nevrosi più o meno simpatiche. «Direi che di feedback non ne manca...», ho sussurrato a Giuseppe durante la nostra sessione.

Quattro ore più tardi il nostro soggetto era stato dissezionato. Più che una lezione di scrittura sembrava una lezione di anatomia. Un'autopsia. Prima è stato tagliato in parti grosse, poi sempre più piccole. Al termine siamo rimasti con brandelli così minuti che da ciascuno poteva liberarsi un singolo mondo. Li abbiamo raccolti con rispetto e portati a casa. Perché non era un processo di distruzione, bensì di creazione pura. Le idee sono arrivate da tutti, da tutte le parti. Le pareti sudavano idee. Durante la pars destruens sono arrivato a sentirmi in colpa verso il soggetto stesso, di avere trascurato evidenze così macroscopiche. Scusa, soggetto, di averti scritto così in fretta.

La pars costruens ha illuminato tutto di nuovo, mostrandoci che dove eravamo bloccati a cercare un sentiero, c'erano in realtà delle autostrade aperte. Cercheremo ora di mettere ordine in tutti gli appunti, gli spunti e le suggestioni ricevute, di metterle su carta, di accompagnare la scrittura fino al punto in cui si potranno togliere le rotelle dalla bici e il racconto inizierà a funzionare da solo.

Le cene, il tempo passato in compagnia, la hall dell'hotel trasformata in sala lettura fino a notte fonda, gli estemporanei brainstorming sotto le bolle dell'idromassaggio: era tutto così spontaneo e credibile che sembrava parte di una storia già raccontata, aveva la familiarità dei racconti fatti bene. Vivevamo quello spirito d'eccezionalità e condivisione che alberga di solito nelle persone che lottano insieme per qualcosa.

Ho ripensato al matrimonio a Cuneo, quando ho spiegato ai miei vecchi amici che la mattina dopo sarei dovuto partire molto presto per andare a una Summer School, e quando mi chiedevano, rispondergli: «sì, scrivo ancora. Ci provo». Qualcosa di simile a una lotta, e non per forza personale.

Riccardo Mauri, 29 anni, di Milano, ha frequentato il Master in scrittura e produzione per la fiction e il cinema nell'anno 2012/2013