L'onda lunga del Vajont non s'è ancora ritirata. A 50 anni dalla tragedia che ha raso al suolo Longarone e il fondovalle, provocato 1900 morti e moltissimi feriti, le case sono state ricostruite, la vita continua ma il tessuto sociale è ancora fortemente compromesso. E' quanto emerge dalla tesi di laurea discussa l'1 ottobre da Ilaria Parrotta, studentessa della laurea magistrale in Psicologia clinica all'Università Cattolica di Milano, che ha realizzato un'indagine sulle conseguenze psicologiche e sociali lasciate dalla catastrofe del 1963.
Che obiettivo aveva la ricerca che ha svolto?
«L'idea era conoscere in profondità la comunità di Longarone a mezzo secolo di distanza dal disastro. La ricerca è stata svolta in alcuni casi attraverso questionari, in altri attraverso interviste individuali e focus group, coinvolgendo in tutto 63 soggetti. In particolare da un lato la generazione adulta e anziana è stata ascoltata per capire meglio le tradizioni, gli aspetti storici e sociali del territorio, quelli antropologici e psicologici e i legami sociali; la generazione degli adolescenti (14-16 anni) e dei giovani (19-29 anni) ha permesso di comprendere la visione del futuro di questo paese. Ho intervistato anche figure istituzionali come il sindaco, la Fondazione Vajont, l'Associazione superstiti e il Comitato dei sopravvissuti, il parroco, il preside di una scuola, un'assistente sociale e una psicologa del consultori».
Cosa è emerso da queste interviste?
«Ancora oggi il tessuto comunitario non si è ricostruito, la ferita profonda ha provocato una cicatrice sociale che fa ancora male. Sono forti le divisioni interne. La stessa generazione di adulti e anziani è divisa tra i sopravvissuti (ossia le persone ferite estratte dalle macerie) e i superstiti (le persone illese che però il giorno dopo hanno assistito alla visione di tutti quei cadaveri e di un paese annientato). Gli uni rivendicano un dolore più grande degli altri, e gli autoctoni accusano chi è arrivato dopo di aver tratto profitto dalla situazione. Inoltre c'è chi vuole ricordare e trasmettere la memoria, e chi vuole dimenticare».
E in tutto ciò le giovani generazioni come si collocano?
«I giovani sostengono che la memoria del Vajont e il recupero delle tradizioni sono importanti, ma che le divisioni interne sono troppo forti e basso il senso di appartenenza alla comunità. Il futuro è vissuto con angoscia e qualcuno immagina la fuga. Tra dieci anni Longarone potrebbe svuotarsi ma nei giovani è vivo il desiderio di essere più protagonisti e di rivitalizzare il territorio. I giovani sono una grande risorsa».
Pensa che siano possibili degli interventi mirati sul territorio?
«Sì, è in cantiere un convegno pubblico che restituisca alla popolazione questo lavoro di ricerca, e stiamo cercando la strada per attivare un lavoro di mediazione comunitaria che aiuti gli abitanti, giovani e adulti, a gestire il conflitto, perchè il conflitto non permette la condivisione e lo sviluppo. Gli interventi realizzati fino ad ora si sono concentrati sui disturbi psicologici individuali, ma quello che oggi servirebbe è proprio un intervento di gruppo che faciliti uno scambio intra e intergenerazionale, capace di abbattere i muri divisori».
Questo rientra nei suoi progetti per il futuro?
«Sì. Con il mio relatore di tesi, Sergio Astori, psichiatra e docente di Psicologia clinica in Cattolica, e la mia correlatrice, Elena Marta, psicologa della Cattolica, stiamo pensando di allargare questo modello di ricerca che si struttura sui legami comunitari anche ad altre realtà, come ad esempio quella di Seveso a tanti anni dal disastro provocato dalla diossina».